lunedì 8 febbraio 2010

Ritorni di fiamma spenti






Le luci dei lampioni rilucevano osceni, smascherando una pioggerellina invisibile. Ho intravisto una sagoma conosciuta. Dava ampie boccate alla sigaretta, all'entrata del locale. Portava una gonna corta e stivali da cow girl storpia. Gli occhi neri, come se l'avessero pestata di fresco. Era stata la mia donna, per qualche mese. E continuava a fumare algida con aria scocciata e il viso da tossica inquieta. Mi sono avvicinato, per nulla imbarazzato dal mio abbigliamento: Una lunga palandrana, con pellicciotto da pappone americano. In quel posto mi avrebbero scambiato per uno alla moda. Uno eccentrico milionario col cervello in pappa. Ci siamo salutati, lei m'ha donato uno sguardo pieno d'odio sprezzante e genuino.
"Chi si rivede...", ha sibilato con un sorrisino malvagio.
Poi dentro, seduti al bancone, ci siamo parlati senza sentirci. E no, non è una metafora da poeti subumani. Capivo solo una parola su cinque. E non era una sensazione spiacevole. Si può immaginare tutto. Intuire. Evitare di sentire troppo la realtà. Avessimo frequentato simili locali, forse sarebbe durata di più con Vicky. La chiamerò Vicky, ma non si chiama così. Però fa tanto film americano.
C'era in ballo una serata afro. O forse era un locale afro. In sostanza suonavano melodie tribali, e quel posto pullulava di neri. Soprattutto uomini. E parecchie bianche native, che si guardavano attorno con aria virginale ed adorante. Pareva una primordiale danza d'accoppiamento, di quelle che si vedono nel mondo di quark. Ma tutto andava all'incontrario. Goffi rituali d'accoppiamento del maschio in amore, e predatrici fintamente restie e sognanti. Poi qualcuna se ne andava raggiante, accoppiata ad un paio di ragazzi. Anche a Vicky piacciono parecchio ragazzi neri. "Sono così dolci e passionali!", ripeteva sempre, senza preoccuparsi di ostentare una punta di razzismo inconscio, da devota del fallo d'ebano. E a me in fondo non fregava un cazzo. In un certo senso, ammiravo la sua sincerità. Denotava un carattere forte e deciso.
Ho ordinato la seconda vodka. Ed il suo sguardo m'è sembrato meno crudele. Alla terza ci saremmo baciati in modo involontario.
"Dove l'hai trovato questo affare? Non me lo ricordo.". Toccando incuriosita i bottoni della palandrana.
"Lo mettevo nel 1998. Coi capelli lunghi ci stava bene.".
"Perché non li ricresci? Uau, come il selvaggio graffiato dall'orso in 'Vento di passioni'!".
"O morsicato da un crotalo svitato.".
Ha riso. Pure io ho riso. Abbiamo riso. Risate afone, vuote. Piene di un rancore sopito che non aveva senso.
"Ma mi spieghi che fine hai fatto? Al telefono figurati, non rispondi mai. Mi spieghi perché ce l'hai, quel telefono?".
"Vedo le chiamate. Adesso infatti è a casa.".
"E se poi non richiami, che senso ha?".
"Nessuno. Te l'ho detto...vedo chi mi chiama. Chi mi voleva parlare. Mi basta. Capisci? Come va alla palestra?". Ha voltato gli occhi cerchiati al cielo. Mica tutti riescono a comprendere il mio intimismo spirituale.
Un marcantonio nero di due metri, rasato e con al lobo un lampadario di sei chili, se la guardava tutta. Ammiccava. La scopava con gli occhi bruni e lucenti alla luce rossastra. Pareva il magnaccia di ufficiale e gentiluomo. Quello che cade dal settimo piano.
"E chi è quello, lo conosci?"
"Si. Non lo vedi che sta al tavolo coi miei amici?".
"E' il tuo ragazzo?".
"No.".
"Te lo scopi allora...".
"No, ma che ti frega di chi scopo?".
"Era per sapere."
Una sinistra forma di perversione mi porta ad immaginare le donne che sono state con me, mentre scopano un altro. Mi piace sapere chi c'è dopo di me. Ho ordinato un torcibudella messicano a 70%, per chiudere in gloria o all'obitorio. Una tizia sudata e col pantalone maculato mi si strusciava incurante. Due chiappe che parevano dover scoppiare di lussuria. Poi s'è accorta che non ero un nero, e nemmeno un mulatto mascherato dalla barba e se n'è andata via, agitando quel culo enorme. Su e giù. Sinist-dest.
"Finisco questo e vado. Ero solo sceso a comprare le sigarette. Vado a godermi la prima di Stakhovsky.".
"Oh che bello, ti sei dato alla musica classica adesso? Io pensavo ti aspettasse una donna.".
"Non è uno svitato musicista morto, è un tennista. Gioca a tennis.".
"oh cazzo! Ancora...mi sembri uno di quei falliti che non sono riusciti a diventare qualcosa, e continuano...".
"Ma io non volevo diventare tennista. Cioè, non meno che fare il pompiere o l'aviatore.".
"Volevi diventare pompiere?".
"No. Comunque, non riesco a spiegarmi come uno col rovescio melodioso ancora non abbia sfondato. Un affare incomprensibile. Te lo spiego io, è un codardo come me.".
"Adesso ti fai le domande e ti rispondi da solo? Sei da analisi!.", ha squillato per superare la musica, con gli occhi da pazza impasticcata che sta entrando nella fase del down apatico.
"Non puoi capire, sono troppo avanti per tutto.".
L'ho vista un po' a disagio. Insofferente. Si morsicava il labbro. Forse voleva dire qualcosa.
"Va beh, e per il resto?", ha provato a cambiare campo passandosi la mano nei boccoli.
"Il resto rispetto a cosa?".
"Oh merda, ti detesto quando fai così! Come cazzo ti va la vita?".
Diventa assai sexy, quando perde la pazienza. E a me piace farle perdere la pazienza. Spesso è una cosa involontaria.
"Va bene. Tutto evolve per il meglio. Le cose stanno girando nel verso giusto. Così sembra.".
"In che senso?".
"Un giorno potrai dire di aver fatto l'amore col più grande genio degli ultimi tremila anni.".
"Oh mio Dio! Siamo al delirio...dovresti smetterla per stasera con quei drink.".
L'ho salutata, osservandola dirigersi al suo tavolo. Ho riconosciuto quelle natiche ondeggianti, intrappolate nella gonna. Mi sono avviato, e tutto girava tutto in modo soffice e vorticoso. Ho rischiato d'inciampare. Evitato il ruzzolone a pelle di leone di fronte a tutti, con un disinvolto balzello. Il freddo, orrendo, penetrava le ossa e tagliava la pelle. Non era più pioggia, ma nevischio. Una specie di brina bastarda, che s'incagliava nella barba. Appena voltato l'angolo, ho avvertito le gambe crollare. L'orgoglio che mi teneva in piedi, afflosciarsi miseramente sconfitto. Steso nel buio, ed appoggiato al muro. Avrei potuto passare lì la notte. Il cielo pareva un prato confuso di orchidee deformi. Mi cullava, assecondando pensieri indecenti e una risata isterica.
Mi sono rialzato. Due isolati gelidi e deserti. Poi il letto. E nemmeno l'istinto di masturbarmi. E intanto, Stakhovsky ha perso. Spazzato via dall'orrore brutale.



venerdì 8 gennaio 2010

Vacanze d'amor struggente





Lidia è scappata in bagno, per pisciare o vomitare. O sciacquarsi la fica. Siamo rimasti solo in tre. Sopra un letto coperto da lenzuola celesti alla rinfusa, calde e umide.
Sara m'aveva sfinito cavalcandomi senza sosta e pietà, ed ora lo succhiava a Paolo, tutta elettrizzata e concitata, distesa sul fianco. Un rumore ansante e bagnato, di mandibola, labbra vogliose e lingua sapiente, riempiva la stanza mescolandosi al fumo di sigarette bagnate in un bicchiere di birra. 

Mi dedicavo con premura ai suoi pertugi accaldati. Un dolce riposo alle reni provate dal pomeriggio mortale, col viso affondato tra quei glutei sfrontati. La lingua ad esplorare e giocare col vizioso buco del culo ormai arreso, lasciando che le dita scivolassero a violentarle lentamente la fica. Si dimenava, agitava a tempo le chiappe, serrandole sotto i colpi della lingua. E seguitava a lappare con cura quell'altro. Ero strafatto, oppure aveva un gran bel culo, Sara. Uno di quelli cui donare tutto l'amore che si ha, fino all'ultima stilla densa. Sodo, strepitante e tondo.
Il cazzo mi s'è armato nuovamente, spavaldo e paonazzo. Con la cappella rilucente di desiderio. L'ho aiutata a sollevarsi sulle ginocchia, e gliel'ho piazzato al culo. Solo un rantolo di piacere sofferto, e altri gemiti soffusi e intermittenti, appena riemergeva dalla cappella dell'altro, in un sincrono depravato e naturale. Il cazzo continuava ad affondare lento, in quel buco stretto, ma scivoloso e sereno. Il segreto è la serenità mentale. Inibizioni e nervosismi, rendono il tutto un'inutile fatica dolorosa. Lo dice il manuale che scriverò a breve. Ho preso a spingere. Un'inculata priva di frenetica brutalità.
Poi altri colpi profondi, senza che la sua bocca sapiente mollasse il cazzo taurino di Paolo. Il telefono ha preso a squillare. Un trillo antico, acuto e demenziale. Mi trapanava le meningi, accompagnando l'ultimo affondo. S'è sottratta di colpo alla morsa finale, balzando fuori dal letto come un'anguilla isterica. Ha afferrato metà spinello dal posacenere, e con due passi era già sulla cornetta. Seduta su una logora poltrona color verde marcio, stipata accanto al telefono, nel piccolo corridoio. 

Aveva tutta l'aria di parlare con qualcuno d'importante. Il padre, la madre, o il nonno. Non si può mica interrompere qualcosa di così intenso, se non per una faccenda fondamentale. O forse, fotteva solo per noia, come bere un'aranciata senza zucchero con la cannuccia guardando il mare calmo. L'ho guardata. Appariva felice o commossa. O tutt'è due. Se ne stava seduta e cianciava di gran lena, tirando lievi boccate allo spinello. Le gambe aperte il giusto per esibire la fica inerme e dischiusa. Rossa e oscenamente sguaiata. Le punte scarmigliate dei capelli, finivano per sfiorarle i seni. Dei bei seni, grossi e vellutati, quasi senza il capezzolo attorno all'enorme corona rosea. Gli occhi erano cerchiati, grandi, inquieti. Una bambola giapponese, nuda e sciatta. E pazza.
Paolo s'è rotto le palle di aspettare e se n'è andato in bagno a scopare Lidia. O a farsi una doccia. Non è mica un fine osservatore, lui. E nemmeno un raffinato amante cerebrale come me, del resto. Ho continuato a guardarla con grande romanticismo. Mi sono acceso una sigaretta, toccandomi la punta del cazzo. E' tornata, un po' più malinconica. La famiglia le doveva mancare parecchio, si notava. Mi ha tirato sopra di sé, e le ho scopato la fica. Se n'è venuta, con le gambe avvinghiate dietro la mia schiena. Accogliendo quel poco che rimaneva dello spirito natalizio e delle lucine colorate. Gocce di sborra stanche, posate sul suo ventre appiattito. Mi sono acceso un'altra PallMall, osservando il brillantino che le riluceva sull'ombelico.
"Se non fossi così naturalmente incline all'esser puttana, potresti anche essere la mia donna ideale", ho pensato. Ma non l'ho detto, per non scoprirmi coglione.

domenica 20 dicembre 2009

Lo spirito natalizio in uno scaldapene




L'atmosfera natalizia m'insinua un germe saltellante, di angoscia divorante. Tutto quel luccicare intermittente e inutile. Odore di terra bagnata e muschio vellutato, raccolto di buon mattino, per riempire il presepio. E poi pecorelle imbalsamate, una grotta di cartapesta, pastorelli con le cornamuse e l'espressione spaventosamente fissa, sbarrata verso il vuoto. Quell'arbusto storpio, addobbato alla meglio, sormontava tutto, suscitando sensazioni di povertà avvilita, senza più nemmeno la rabbia.
Bisognava anche fare i regali. Mio padre smoccolava e bestemmiava, quai fosse una bestia dallo sguardo feroce. E capii come andava la vita, a sei anni. Robot e piste elettriche muggivano d'odio proprio come quella faccia arrabbiata color del melograno. Intuivo idee di incidenti involontari. Con gli anni avrei compreso anche il significato dell'amore. Spesso non è una schizzata maldestra e incontrollabile, travestita da volontà divine.
Scorrono gli anni, senza mai riuscire a scrollarmi dalle carni quell'inquietudine macerante provocata dallo spirito natalizio annunciato da musichette idiote. Nel 1998, nel giorno del gaudioso avvento, mi rinvennero in un fosso. Lo stereo della vecchia golf rimandava questa, all'infinito. Non ho mai capito come fossi finito in quel burrone spinoso, ma quasi ovattato da divinità propizie.
Basta qualcuno, qualcosa, un piccolo gesto inaspettato. Qualche anno fa, la mia donna mi regalò uno scaldapene. Un po' mi corrucciai. Pensai a significati simbolici. Un crudelmente allusivo invito a prepararmi a gelide notti solitarie. Poi lo indossai con gioia. Voglio dire, uno scaldapene in lana arancio, con tanto di laccetto stringi mazza alla base delle palle, e soffice bonbon bianco sulla punta. La lana provocava un certo prurito al glande. Ho il glande sensibile e facilmente scappellante, io. E me lo sfilai. Ma che mente geniale. Quale donna brillante. Che tette dirompenti, coi capezzoli che guardavano all'esterno faccende a noi incomprensibili, simili ad occhi maliardi e lascivi. 

Che fine avrà fatto? Ora che ci penso, non trovai mai il coraggio di regalarle uno scaldacepezzolo. E nemmeno uno scaldavulva prensile.

mercoledì 16 dicembre 2009

Una muta erezione. Danzando su musiche inesistenti








Guardo alla tv una vecchia bacucca, e mi balza in mente Kate Moss. Sotto un cielo ammantato di stelle a cosce aperte, lecco la sua fica con passione famelica. Poi ci facciamo di whiskey costoso e ogni tipo di droga sofisticata. E invece tocca accontentarmi di tossiche mediocri, naturalmente disagiate. 
Una donna tremendamente attraente mi invita a casa sua, e invece di scoparmela sul comodo letto matrimoniale, propongo di farle un delicato ritratto. E io non so disegnare. Stretto nel lungo cappotto sfregiato da bruciature di sigarette, avverto sulle carni un gelo tagliente. E dipingo una spiaggia nudista, sotto il sole brutale, che arde pelli avvizzite, floride, oscenamente impietose.
I saggi mi definirebbero un pericoloso dissociato, da tenere sotto stretto controllo, perché capace anche dell'insano gesto finale. Non hanno capito un cazzo, come al solito. Li fotto abilmente.
Mi ha mollato alla vigilia dell'immacolata concezione. Tutto sembra avere un nesso, una cristiana motivazione odorante incenso al suono di rosari di madreperla sgranati. Un sms da 10 cents per dire basta, con pretesa di incontri chiarificatori. Succede una dozzina di volte al mese. E a che serve un patetico incontro? Non mi piacciono gli incontri chiarificatori. E nemmeno le lucine colorate di natale. 

"Ma vuoi che finisca via sms?". E poi, altri improperi stizziti, in quella quasi satanica abilità femminile di uscirne sempre dalla parte della ragione, vittima del male. "Che uomo sei?". "Non hai nemmeno le palle di vedermi?". E tante altre, meno ricercate. Giammai, non sono mica un codardo io, ho pensato accendendomene una. L'ho chiamata, dicendole timidamente che via sms mi aveva mollato le. E in fondo cosa cambia? Un sms rimane come prova, una traccia del passato. Io li cancello appena ricevuti, gli sms. Lei voleva lasciarmi un'altra volta a voce, e gliel'ho concesso.
Ho bevuto ogni residuo alcolico disseminato nella casa, e mi sono addormentato sereno. Un bel ponte di solitudine esasperante. Ho preso coscienza che il sole era già alto, ed una specie di morsa avvolgeva il mio corpo disteso, nudo come un verme nella solitudine più cupa. Placida e indolore. Non faceva male. Come una leggera coperta di spilli, che t'avvinghia le carni. La luce sottile, filtrando discreta, ha raccolto nella sua parabola traversa un giornale spiegazzato sul como', una porzione di schermo nero, e la mia cappella lucente. Un cazzo spavaldo, turgido e scappellato, vagamente inclinato a sinistra. Eccitato senza un motivo. Simbolo di un corpo ancora vivo. E' quello il metro per capire che sto ancora bene, il cazzo eretto. Assieme ad un filo di barba ruvida. E di quanto il cervello sia un orpello impotente. Anche medici e strizzacervelli, dovrebbero fidarsi di un cazzo duro. 

La coperta immaginaria continuava a procurarmi fastidio. Sul soffitto, un filo pendulo. Semovente, sinuoso e inquietante, assecondava vortici d'aria inesistenti. Fluttuava orrendo e ritmato, danzando melodie mute.
Mi sono alzato, ho aperto la finestra sui quieti palazzi ingrigiti, ho acceso una sigaretta e me la sono fumata fino al filtro. Lavato con odoroso bagnoschiuma al sandalo, mi sono ridisteso sul letto sfatto. E ci sono rimasto una giornata intera. Completante nudo, con il freddo che gelava la pelle e i coglioni vuoti. A guardare quel filo leggerissimo, che seguitava a fluttuare instancabile.

Ecco un post sul nulla, auto compiaciuto della propria minchia dura. Che cos'altro è la vita?



giovedì 3 dicembre 2009

Come spruzzi dispettosi di piscio divino





Seduto sul muretto, riflettevo rimirando stelle cadenti che sputano illusioni. Nubi frastagliate e minacciose, scosse dal vento gelido. Ogni tanto una sgrullata di pioggia, come spruzzi dispettosi di piscio divino. E pensavo a quell'uomo senza culo, occhi di calcestruzzo e cervello di marzapane, da cui dipende il mio futuro. L'evenienza di una pensione. E mi chiedevo se ci fosse una logica finale.
A pochi passi, attorno a un chiosco, un campo rom improvvisato. Lavoratori dell'est trincano birra e ridono, in libera uscita. Sbluffate di kebab, aglio, cipolla, latrina a cielo aperto e zolfate sigarette L&M (lemè-lemèee-lemèee, comprate lemèeeee! Bèlo giovine ti servono lemèeeee?). Un biondino addobbato a goffo tronista di amicidimariadefilippi, mi si avvicina ciondolante, ha l'aria guascona. Di un imbecille sicuro di sé. Chiede una sigaretta, gliela do. Un altro offre un po' della sua Lager in barattolo da discount. Poi tira fuori un coltello, mi intima di allontanarmi dalla loro zona. Così ho intuito. E in certi casi, occorre dar credito alle intuizioni.

Il treno arriva. Nello scompartimento due fanciulle, con la borsa da lavoro. Parrucchiere, estetiste, commesse...chissà. La più ciarliera è vestita di un'espressione smunta e afflitta. Capelli castani e occhi cerulei a completamento di un quadro decadente. Di un'insipida trasparenza, simile a una lumaca di terra con disturbi mentali.
L'amica se ne sta ad ascoltarla silente. Interveniva ogni tanto, scuoteva la testa. Mi incuriosisce. Forse anch'io la incuriosisco. Lanciava intensi sguardi furtivi. Causa occhiali da sole indossati con disinvoltura alle 21,52, forse mi crede uno svitato. O un terrorista rossonero. Poi me li son tolti. Rimaneva davvero bella, di una bellezza semplice. Attenuava l'insofferenza verso la luce dello scompartimento, che seguitava a violentare pupille brucianti. I capelli arruffati le scendevano selvaggi, posandosi sulle spalle. Solo una donna dal gran carattere può portare quei capelli. 
E io continuavo a guardarla con discrezione innamorata. Pelle ambrata e irregolare, con tante specie di lentiggini sottopelle. Labbra imbronciate e solcate, di quelle da baciare al chiarore di stelle amoreggianti e puttane, sotto occhi scuri di una timidezza tormentata. Gesticolava suadente, assecondando i discorsi della lumaca petulante.
Avrei dovuto chiederle qualcosa, mi avrebbe risposto. Saremmo usciti qualche volta. Avremmo scopato, si sarebbe scoperta innamorata della mia nerchia generosa, mi avrebbe incoronato il più grande leccatore di fica del globo. Poi vissuto tristemente assieme. Avrebbe provato a farmi smettere di bere. L'atroce immagine di un pulpito imbiancato e schizzi di riso, e due figli urlanti tutti pasticciati di marmellata alle mele cotogne.

Scrivevo una mail squilibrata sul portatile da sette pollici, e pensavo a simili sviluppi orrendi.
S'è alzata, un metro e sessanta di magia pura, attraente in modo inconsapevole. Con un movimento sinuoso s'è inerpicata sulle punte, donandomi le chiappe spavalde. Ha afferrato la borsa dal bagagliaio, lanciando un ghignetto di fatica. Poi se n'è andata, svanendo in una triste stazione di periferia, lasciandomi un ultimo sguardo, malizioso assai.
Che importa in fondo. Dove la portavo una che non mi arriva nemmeno allo sterno? Avremmo litigato per futili motivi, scoperto incompatibilità di carattere e cercato furtivi amanti rinfacciandoci caratteri incompatibili. Avrebbe chiesto divorzio e alimenti per i frugoli disadattati, accusandomi di essere un buono a nulla. Avrei consentito al maschio di farsi le canne fino all'università. La femmina sarebbe scappata con un musicista tossico. 

L'orrore.
Meglio lasciare tutto intonso.
Non ha senso conoscere gente, illudersi di amare. L'amore è un danno. E' tutto un grande imbroglio. I veri dritti sono intimamente codardi. E poi lei era davvero troppo bassa, forse non lo sapeva nemmeno succhiare con passione. E poi, che discorsi, a casa mi aspetta lei.
Arrivo stremato. Lei indossa una maglia col numero 33, che le coprono le mutandine rosa confetto. E mi guarda di traverso. Gli occhi malvagi sbucano appena, sotto riccioli dorati e bizzosi.
“E dove sei stato fino ad ora? Perché non rispondi mai al telefono?”.
“Un incontro di lavoro.”.
“Lavoro? Hahahahaha...”. Una risata stridula e spaventosa.
“Si, poi ho incontrato una donna tutta tana, l'ho sposata, abbiamo avuto due gemelli, e ci siamo lasciati per insuperabili divergenze di carattere.”.
“Ti sei ubriacato anche stasera, eh? Ed io che aspetto come una stupida!”.
Mi sono fatto una doccia. Abbiamo cenato. Una bella cena sofisticata, misto mare, bagnata da un rosso a buon mercato. Poi s'è lasciata sfilare gli slip, e ne abbiamo fatta una trasgressiva sul tavolo della cucina. I viaggi in treno, servono a quello del resto.

mercoledì 18 novembre 2009

Un nano monco che si ingroppa una sedia sbilenca, col cazzo moscio








Mi sono ritrovato al centro di una comitiva di intellettualoidi spetazzanti. Un delizioso aperitivo, nel locale più costoso e lussuoso della città. 
Il centro di tutto era Alfredo. La madre badessa di una setta di esaltati. Un quasi cinquantenne di 162 centimetri abbondanti, capelli posticci di un biondo marroncino, scenici occhiali con montatura di un estroso rosa tenue. Alfredo sorrideva suadente emanando un orrendo odore ascellare, acre e ricoperto da spray dozzinale simil “pino silvestre”.
Attorno a se un manipolo di fanciulle adoranti, se lo pappavano con occhi di virginale e devota ammirazione. Mi domandavo cosa avesse di così attraente quel maleodorante omino occhialuto. Possibile fossero così profondamente stupide? Ho chiesto lumi a colei che mi aveva introdotto in quel serraglio ricercato. Ha fatto spallucce, come a non poter dare banali e terrene risposte riguardo un affare troppo grande per me.
“Oh...ma lui è semplicemente ALFREDO...”.
Cristo, anche la mia donna era irrimediabilmente attratta da quello strano esserino che si muoveva frenetico, come punzecchiato nelle natiche da uno spillone imbevuto di ketamina. Ammirava Alfredo. E Alfredo parlava, cianciava. Discorsi fiume, senza alcun senso. Politica, alienazione della tv, mass media corrotti, dadaismo, arte astratta, nomi di inesistenti pittori contemporanei tedeschi con simpatie naziste. Inventava tutto al momento. Ogni tanto alternava ai discorsi saccenti ad ammiccanti doppi sensi a sfondo sessuale. Sorrideva ostentando la dentatura da bestiola marsupiale. E tutte se lo abbracciavano ansanti, immaginando la sua impalpabile nerchia gigante in rima.
“hihihihi...ma come fai? Sei il solito...Hihihih...”.
Il suo puzzo osceno, da fradicio montone selvatico, non le inibiva minimamente. Avevano gli occhi sgranati come davanti a un tacchino a forma di minchia.
Poi l'intera comitiva s'è trasferita per un fine serata da spendere in una osteria popolare, giusto per dimostrare a se stessi d'essere proletari. In macchina ho saputo dell'altro. Alfredo nella vita non fa nulla. Si dedica all'arte. Aspetta che l'ispirazione geniale lo trasporti via, come un'impetuosa onda del mare inquinato da cui sgorgano i tubi della fogna.
“E' un artista concettuale!!!”.
Io mica l'ho capito cos'è un artista di concetto. Forse uno di quegli svantaggiati che cacano nel piatto, si scopano un'anitra selvatica o fotografano una mela marcia, lasciando intendere che abbia un senso imperscrutabilmente superiore. Incomprensibile agli occhi umani che conoscono solo i loro peli del cazzo. E' facile l'arte, in fondo. Ha continuato, come a frustrare la mia sciocca perplessità.
“Ma tu ce lo vedi in un ufficio, Alfredo? Lui è uno spirito libero...non lo conosci!”.
Ho iniziato a buttare giù il rosso, per eclissarmi dall'atroce marasma. Al tavolo l'atmosfera s'era fatta pesante. Alludevano alla fica senza nominarla, e poi discorrevano di impressionismo. Hanno intrapreso un discorso complicato. Tutti concordavano sdegnati. Rigettavano la laurea come sinonimo di ottuso imborghesimento castrante dello spirito. Nessuno era laureato, o aveva il coraggio di confessare il vile reato. Non mi sono svelato, o mi avrebbero scambiato per un miserabile arrampicatore sociale, un simpatizzante del nazifascismo, uno stupratore seriale o, peggio ancora, un liberale. Alfredo si vantava di aver lasciato la laurea in architettura a pochi esami dalla fine. E' uno spirito libero, del resto.

Per un attimo l'ho guardato. Il vino faceva il suo sporco effetto, come una delicata guaina anestetizzante. Ho ammiccato. La bisessualità è parecchio trend. L'ho ammantato di parole folli, che zampillavano facili. L'artista di concetto si è mostrato imbarazzato, non senza un filo compiacimento. “Oh, neanche gli uomini sanno resistermi...”, sembrava ripetersi, con gli occhietti vuoti e fastidiosi. Poi gli ho chiesto: “Ma tu quando scopi un termosifone, te lo metti il preservativo?”. Non m'ha risposto.
Ci siamo rimessi in macchina. Offesa, non mi parlava. La luna velata da tanti rivoli spaventosi e sfilacciati, m'ha chiarito la triste verità. Lei si vergogna di me. Dovevo farmi perdonare. Il cazzo montava inesorabile nei pantaloni, anelava sollievo dopo quelle ore di abbrutimento. Ha schivato i miei baci sul collo, visibilmente infastidita. I riccioli somigliavano a un cespuglio inestricabile di rabbia bionda. C'era ferocia vera nei suoi occhi. Orrendi lampi rosso fiamma.
Poi ha ceduto. Ci siamo baciati. Un bacio appassionato e pacificatore. In sottofondo, i guaiti di due cani bastardi che s'inchiappettavano senza pretendere nulla. Le lingue guizzavano all'impazzata, la mano cercava avida la sua fica glabra e sgusciante. Poi l'ho trovata. Cristo! schiumava eccitazione furiosa. L'ho accompagnata su di me, lasciandola affondare sul cazzo, già tronfio. Ha preso a dimenarsi frenetica. Mi montava con rabbia sguaiata, dibattendosi impazzita. Non mi dava tregua, voleva punirmi. Ha serrato le chiappe, s'è presa il suo orgasmo, tirando su le mutande.
“Sei solo una puttanella da due soldi! eri eccitata per l'artista di concetto, eh?”
“Sei pazzo...ubriaco, pazzo e malato! Devi farti curare!”.
Siamo saliti a casa. Ne abbiamo fatta un'altra all'impiedi. Poi ci siamo sbattuti sul letto. Una chiavata all'ultimo respiro. Mentre bevevo una Beck's da 66cl sul letto, me lo ha succhiato con morbida lentezza. 

Mi sono svegliato vagamente stravolto. Una bella domenica, di nulla sibilante. M'è venuta un'ispirazione artistica. Improvvisa, possente. Dovevo lasciarla esplodere o sarei morto. Lei dormiva ancora, i boccoli chiari le coprivano il viso, lasciando scoperto il collo. L'ho destata dolcemente, ma con la voce assai concitata:
“Tesoro, ho deciso. Farò anch'io una mostra di arte concettuale.”.
“Ah...”.
Ho pure deciso la prima opera. Un nano monco, che si ingroppa una sedia sbilenca, col cazzo moscio.
“Gesù, sei fuori di testa...gente, sto con un pazzo-pazzooo-pazzoooo...”.
S'è girata ed ha ripreso a dormire.

lunedì 12 ottobre 2009

La volta che baciai dolcemente le labbra alla morte







La osservai allontanarsi. Un vecchio bisonte l'avrebbe portata via dal gran polmone cicaleggiante della città. Ero arrivato in treno due giorni prima, ora lei se ne andava in un lercio treno metropolitano. Un buffo paradosso. Uno come tanti. Si voltò un attimo, liberandosi in un sorriso timido, appena accennato. Continuai a guardare quelle gambe lisce e muscolose e le natiche alte e spavalde, sempre più lontane. E una chioma bionda e mossa che sbatteva leggiadra, seguendo passi sicuri.
M'avviai soddisfatto. M'ero fatto valere, annaspando su quel biondo serpe vizioso. Forse l'avrei sposata. Era meno sensibile ma più depravata di Claudia, più sicura di Michela, Gabriella e Daniela messe assieme. Il suo corpo, persino più attraente di quello di Carmen cavatappi e Valentina. Uh Valentina! Una frenetica bomba ad orologeria. Durò solo due mesi. Il tempo è una grassa frescaccia. Quei due mesi valgono dodici anni. La mia odorosa musa ispiratrice. Fosse durata almeno tre mesi avrei scritto la divina commedia in salsa erotica nel giro di una notte e mezza. Invece se ne andò una sera di aprile e adesso scrivo in un blog che non legge nemmeno un cane con le emorroidi. 
Fanculo le muse di uno scrittore abortito.
Una frenesia calma rivestiva strade brulicanti. Uomini bardati d'azzurro, tricolori fiammanti, grotteschi cappellini da giullare. Asiatici, neri e zingarelli con la mani sudice, tutti uniti dall'azzurro. Ero l'unico diverso che camminava nel mare d'amor patrio. L'Italia si giocava il mondiale, avrei visto la partita da solo. Oppure in uno dei maxi schermi che disseminavano la città, attorniato da gente rumorosa, da solo. Come un cazzo duro, inutilmente fiero davanti a uno specchio. 
Camminai. Un subdolo dolorino partiva dalla pianta dei piedi, fino a conficcarsi come uno spillo sottile nelle meningi. M'aveva succhiato tutto, sangue, sperma e midollo, quella diavolessa bionda con le labbra di ciliegio.
Entrai in un negozio di bengalesi. Pure il commesso indossava una maglietta dell'italia, probabilmente quella di Paolo Rossi nell'82. Soffocava nella lana accollata, ma resisteva stoicamente con la pelata lucida di sugna. Comprai due confezioni di birra, vodka russa a buon mercato e una bottiglia dell'adorato JD. Poteva bastare, lasciai giusto i soldi per il biglietto di ritorno, accartocciati in tasca. Fuori c'erano 40 gradi e avvertivo i brividi di freddo, stretto nella mia giacca di pelle nera. L'indifferenza della metropoli m'aiutava. Nessuno trovava il tempo di additarmi come matto. Mi mescolavo abilmente agli altri.
Entrai nella pensione a prezzi modici, il portiere mi sorrise affabilmente untuoso e pettegolo. Probabilmente s'imbottiva di viagra per poi masturbarsi immaginando di scopare una capra belante. Mi diede la chiave, le bottiglie tintinnavano gioiose nella busta. Avevo sete, una gran voglia di bere.
Mi spogliai e rimasi in mutande sul letto matrimoniale, a rimirare ombre immaginarie. Quasi sentivo l'odore dell'avida sorca di Federica sulle lenzuola, mescolarsi alla nicotina rarefatta dal condizionatore. Forse l'amavo, sicuramente l'avevo amata moltissimo in quei due giorni. Il futuro non m'interessava poi così tanto. Rimasi a bere per per ore. In tv gli azzurri già si davano da fare con animo ardimentoso, ed io buttavo giù birra calda come antidoto a tutto. Quasi un sortilegio magico mi rendesse vulnerabile, senza fica. 

L'amante fantasioso e stupido di qualche ora prima, lasciava il campo a un cencio svuotato. Cominciai a darmi da fare con la vodka gelata, scendeva nelle viscere come ghiaccio scottante. E nello schermo non distinguevo più le sagome in mutande. Solo la voce eccitata del telecronista. Fastidiosa, squillante, insopportabile. Avessi avuto una lugher gli avrei sparato. Scagliai la bottiglia contro lo schermo. Uno scoppio, il fragore avvertito quasi in lontananza.
Accesi una sigaretta, e m'affacciai alla finestra. Mura antiche e cadenti, e nessuno per le strade. Stappai un'altra birra, poi whiskey, e ancora birra. Vomitai aspri brandelli d'anima liquida. Tremavo come una foglia, budella attorcigliate, col cuore che pompava impazzito, manco fosse un temporale schizoide di luglio. Lo intuivo nel petto, poi nello stomaco vuoto, per poi scoppiare feroce nella gola. Pensai di morire sul serio. Trincai alla bottiglia, per scacciare via quella paura. Mi apparvero due angioletti calvi e gnomi. Tutti bardati in una tunica turchese e dorata. Sorridevano accomodanti, mostrando l'unico dente centrale. Poi scorreggiarono all'unisono. E sorrisero ancora. Orribile.
Pensai di chiamare qualcuno. Chi avrebbe capito? Mi avrebbero condotto in grigie stanze di manicomi, o all'obitorio. Ci vanno a nozze con queste cose, quelli lì. Forse ero già morto. Provai a masturbarmi, sarei morto venendo. Il cazzo rimase paonazzo, venoso, inesorabilmente barzotto, di una mollezza vinta. E l'atroce visione mi strozzava. L'impotente sensazione di soffocare senza poter nulla, completamente annegato, senza acqua e senza un perché. I due nani alati ora avevano un ciuffetto biondo e sbarazzino, come Tintin. Alle loro spalle, algida e imponente, una sagoma di donna cadente coi capelli bianchi e stepposi. Portava uno spaventoso mantello lucido color porpora. I suoi denti aguzzi e luccicanti mi ammonivano, riempiendosi di parole metalliche incomprensibili. E m'invitava ad avanzare, subdola e strisciante. Le sue labbra lambirono oscene, le mie. 

Dovevo agire, scappare in fretta, prima che mi strangolassero per sempre. Infilai velocemente il pantalone e una camicia. Pestai i vetri taglienti senza avvertire nulla, vomitai qualche residuo, sciacquai il viso. Scivolai su un gradino immaginario, un appoggio ingannevole. Poi un urto sordo e violento contro la tazza del cesso. Solo il tempo di avvertire un rivolo caldo che dalla tempia colava lungo il viso. E fu buio accecante.
Mi svegliai con una bella erezione che pulsava allo stesso ritmo della testa, sul punto di scoppiare. Tra odori di vomito e sapone al muschio selvatico. E capii che ero ancora vivo. E col ricordo dei danni da pagare alla vecchia zimarra.

mercoledì 7 ottobre 2009

Della svogliata concessione di un prepuzio annoiato







Ho passato il sabato mattina a riflettere. Steso sul letto, completamente nudo. Fissavo il soffitto. E poi la finestra, e l'acqua stagnante. Nell'assolata solitudine di un autunno atroce, dove i ciclamini crescono sghembi tra pietre logorate dagli anni.
M'ha chiamato Filippo. Filippo è il mio procacciatore di fica, nonché problematico trentacinquenne col vizio delle pasticche sintetiche. Altezza media, viso angolare e spigoloso, rossiccio di capelli, espressione spiritata, movenze frenetiche e snodate, come perennemente caricato a molle da qualche satanello dispettoso travestito da acido allucinogeno. Tempo fa, dopo una festa, si spogliò tutto nudo e si mise a cantare sul bancone: “Tu sei sempre mia, anche quando dormi tu sarai l'unica donna per me...”. Poi cominciò a masturbarsi bestemmiando, e lo riconducemmo in casa. Non mi è mai stato chiaro il perché vada così forte con le donne. Tra le gambe non ha nemmeno quel grande spirito sensibile, che tanto attrae gli animi femminili. E tra l'altro, è spesso al verde.
Con la voce tutta concitata, mi confida che ha per le mani due tipe molto interessanti con cui passare la nottata. Ho provato a declinare, millantando impegni superiori. Il sesso ultimamente non mi attrae molto. Mi andava soltanto di rimanere nudo coi miei perché, da accarezzare con pettini immaginari e spegnere grazie a una cassa di Beck's. Due fantasmi orrendi m'hanno aggredito, in mezzo a quelle pareti. Portavano delle zazzere giallo ocra, i peli neri lunghi e ispidi sulle braccia e mi morsicavano la giugulare con gengive sguscianti. Ho deciso di scappare vigliaccamente, accettando l'invito di Filippo.
Come tutti i dritti, prima di una serata terrificante, mi sono ubriacato a buon mercato, da “Donato baffone”. 1 euro e 20, una peroni. Me ne sono sparate sei assieme a un muratore depresso, ed ero quasi al pari degli altri, laffuori. Ho impiegato un ora e un quarto per raggiungere il locale, vagando tra stradine sconnesse, rese scivolose dalla pioggia battente. Dal di fuori appariva una chiesa sconsacrata, un luogo di dannazione. Uno di quelli dove si praticano riti orgiastici in maschera. Sono entrato. S'è rivelato un localino quieto, discreto, sonnolento. Una clientela elegante e giovanile. Nessuna maschera. Un gruppetto di sofisticati uomini di mezza età suonava del gradevole jazz. Un po' mi piace il jazz, in alcuni momenti. E' il triste destino dei tempi che passano e degli uomini che invecchiano. Si passa dai
Soundgarden al rock d'élite, al jazz o alla classica. Idee rivoluzionarie più a sinistra del partito comunista cinese, scivolano lentamente nella vile moderazione. Dal sesso spiccio, ruspante e godereccio, si arriva a folli pensieri d'amor struggente e gelide pianificazioni di futuri e vecchiaie. Sarà per questo che io non invecchierò mai. Rimarrò sempre uno stronzo sognatore, con la testa in nuvole di luppolo. L'unico progetto che ho è non raggiungere le 14 birre. A quella soglia mi colgono improvvisi pensieri di morte e ipotesi di sinuosi voli d'angelo dal quarto piano. Il segreto è fermarsi alla tredicesima, o continuare. Perché dalla quindicesima in poi me ne dimentico.
Ho tirato giù un cocktail via l'altro. Gaglioffi ed infingardi, come tutte le cose dolci. E mi sono scordato del conteggio.
Le due ragazze non erano neanche malaccio, date le circostanze. Filippo s'è fiondato sulla eroinomane. Me l'aveva presentata a un concerto (aggratise) dei Cure. Dopo essersi scolata mezza bottiglia di vodka, voleva togliersi le mutande e scopare tutta la popolazione maschile in piazza S.Giovanni Laterano. Una tipa simpatica e brillante, insomma. Coi capelli rossicci legati in due trecce, come pocahontas, fisichetto nervoso e snello, stretto in un vezzoso vestitino beige, trucco pesante attorno agli occhi vispi e un bello sguardo vizioso. 

A me è rimasta l'altra, e non è stato nemmeno un male. Un bel donnino dai capelli biondo platino, mossi e selvaggi sulle spalle, con le gote rosse e i tratti del viso gradevoli, di chi è curiosa della vita. Pareva accaldata. I suoi occhi erano chiari a metà tra lo spento ed il sognante. Le ho guardato le labbra, con discrezione distaccata. Delle belle labbra carnose che ti aggrediscono, contorcendo parole. Pure lei era pitturata di nero spaventoso attorno agli occhi. Un look difficilmente inquadrabile, metà dark, metà ragazza alternativa e di sinistra con una spruzzata glamour. Attorno al collo un foulard sottile-sottile color celestino tenue, con tante venature abbaglianti. Appena sotto, dalla scollatura sbucava uno spacco di tette imperiose. Simile alla fata turchina, con parecchia voglia di cazzo. 
Per qualche secondo ho immaginato le sue magie in un letto. Poi ho ripreso a bere. Grazia, così si chiamava (“Grazia-Graziella-e grazie 'o cazz!”, diceva un mio amico intellettuale, quando voleva fare il simpatico) parlava bene, diceva cose intelligenti. Non le capivo, ma erano interessanti senz'altro. In certe circostanze, non è importante il contenuto, ma come le parole vengono fuori. Il movimento delle labbra, le rughe involontarie del viso che rivelano sorrisi gioiosi o di sofferenza, il modo in cui tira una boccata alla sigaretta.
Ci ho lasciato 60 euro con classe incurante, e ancora non sapevo se avessi superato la fatidica soglia del 13. Non me ne sono curato. La bionda, in piedi, faceva la sua bella figura. Un bel didietro pieno e tornito, che scoppiava gaudente nei pantaloni chiari. Filippo s'è avvicinato, luminoso e parecchio impasticcato.
“Senti, se vuoi, andiamo a casa mia, facciamo qualcosa insieme tutti e quattro...”, ammiccando un po'.
“No, stasera non è proprio serata.”.
C'è rimasto un po' male. Ha improvvisato un impegno, e se n'è andato con la sua bella pocahontas strafatta.
Di fuori, la pioggia aveva rallentato. Siamo rimasti nel parcheggio deserto, circondati da alberi di pino, che sgrullavano goccioline inquiete.
“Con tutto quello che hai bevuto, se ti fermano, la patente non te la ritirano, te la bruciano...”.
(Uhuh! m'è toccata una crocerossina).
“Figurati, sei premurosa. Risulta sbronzo anche chi ha mangiato un cioccolatino al rum. Stando alle loro soglie dovrei essere morto.”.
Mi scrutava incuriosita. Forse aveva studiato psicologia dalle orsoline baffute ed operose.
“Non mi hai ancora detto che lavoro fai.”.
“Niente. Mi guardo attorno.”.
“Ti invidio allora...”.
“Che vuoi che sia, attendo di vendere la casa, poi bevo fino a crepare. Quello che resta lo lascio al gatto.”.
“Ma vivi solo?”.
“Certo. Ma una ragazza ce l'ho. Devo solo dirglielo, un giorno o l'altro. Sono un insicuro.”.
Era sinceramente divertita. Ridono tutte. Non mi so spiegare il motivo. Scambiano la tragedia con l'ironia. Sono strane le donne.
Poi ha continuato a monologare. Parole importanti, di cui ricordo solo frammenti spigolosi. Ho cercato di darmi un contegno. Mi sono acceso una sigaretta. Tremolava tutto, intorno alla macchina. Bisognava fare qualcosa. Le ho baciato le labbra. Con un movimento di gran classe le ho cinto la schiena. Le sue labbra erano fredde, e la lingua una saetta gelata che lentamente andava rianimandosi, fino a trasformarsi in frenesia lasciva. Non mi piacciono le lingue solcate da ferri e ferraglie, ma in certi casi non si ha il tempo di pensarci. Le mani cercavano le sue chiappe sode. Con un movimento deciso ed aggraziato, mi ha preceduto. Lo ha tirato fuori dai pantaloni ed ha cominciato a lavorare con cura il povero prepuzio stanco. Un rituale puntiglioso. Ha preso a baciarlo lentamente, come a fare conoscenza. Ho pensato che fosse una ragazza molto dolce, con tanto bisogno d'amore, mentre lo sentivo ingrossarsi e scoppiare nella sua bocca, d'improvviso. Menava lentamente con la destra, con la sinistra accarezzava il contorno. Le unghie laccate di nero graffiavano con dolcezza. Ogni tanto dei bacetti delicati a solleticare la punta. Quella masturbazione baciata, mi mandava ai matti. Avrei fatto in tempo leggere la divina commedia in esperanto, prima di venire. Ero sbronzo e lei non lo capiva. Ma ho lasciato fare.
Continuavo a chiedermi quando avrebbe cominciato, l'attesa mi smarriva. Le labbra, assecondando l'andamento delle mani, mi eccitavano. Poi s'è fatta più decisa, le sue dita ora serravano con forza una nerchia impazzita. E le vene pulsavano sempre più gonfie. Poggiava le labbra umide alla cappella, l'avvolgeva sinuosamente con la lingua, senza più freni. Gesù che lingua. Avvertivo il suo fiato, l'eccitazione che montava, parallela alla mia. Me ne sono venuto, osservando la luna che s'affacciava timida, tra nuvole spaventose. Ha raccolto tutto in un fazzoletto e s'è ripulita di qualche riottoso residuo.
Si è acquattata sopra e abbiamo continuato a fumare e guardare quella luna nascosta. Poi ho avviato il motore, e mi sono fermato al primo distributore di preservativi.

mercoledì 26 agosto 2009

Tettine frementi







Probabilmente Andrea era omosessuale. Ma non gliel'ho mai chiesto. Sarà per la sua mascella squadrata e il sorriso ammiccante mentre mi scrutava il pacco, ma mi ero fatto quell'idea. Non sono una persona troppo profonda. Fors'anche fuorviato dalla saggezza popolana di mia nonna, vent'anni fa: “Ma che nome è Andrea per un uomo? Andreo, lo dovevano chiamare.”.
Nativo del nord operoso e gelidamente ordinato, capelli chiari a spazzola, occhi inquietantemente piccoli, moralizzatore dei costumi basati sul “tirare a campà” tipici del sud, discreto, salutista, dedito alla palestra e con il tipico fisico da ospite di Mauthausen, maniaco dell'ordine, conoscente di tutti e amico di nessuno. L'inquilino perfetto da ignorare. Ogni tanto lo incrociavo di mattina per le scale, niente di più.
Quella sera aveva organizzato un party, per festeggiare qualcosa. Uno sciame di ragazze dall'aria smaniosa e con una luce viziosa e rassegnata negli occhi. Col suo fare affabile e amichevole del “conosco tutti io”, riusciva a crearsi un harem di pulzelle adoranti al seguito, Andrea. Sono uscito, rientrato dopo quattro ore buone, con addosso un carico di vodka mica da ridere. Il passo leggero e la mente sgombra, la percezione soffice e sfumata di cose e figure. Erano rimaste solo tre fanciulle annoiate. La tipica festa da liceali oramai trentenni, sul punto di sfociare nel gioco della bottiglia.
Tra orrida coca-cola e ponch analcolici, c'era ancora della birra. Mi sono seduto e ne ho sgargarozzato una. Ho parlato con una bionda rossiccia, ben messa. Niente di che, ma tra le altre due spiccava. Carnosa il giusto, chiappe che scoppiavano nel pantalone bianco, tette discrete, capelli che pizzicavano appena la schiena, labbra del tipo “mordimi sciocco” e occhi furbi, cerulei e un po' sbronzi. Le altre due se ne sono andate sculettando. Alessandra, così si chiamava, è rimasta. Lavorando lì vicino, spesso dormiva col mio inquilino. Voglio dire, nella stessa stanza. Non ho mai capito se ci scopassero o l'omosessualità latente di Andrea lo impedisse. Più volte l'avevo incrociata, senza pensare che fosse una scopata da non buttare via.
“E' andata bene la festa?”, ho chiesto.
“Normale.”.
“Poteva ravvivarsi con un'orgia ridotta...”. La vodka mi scioglie la lingua rendendomi umorista inconsapevole.
“Magari...”, ha sibilato a metà voce.
Quel “magari” è risuonato sinistramente, per qualche secondo, nella mia mente leggera. Poi mi sono versato dell'altra birra. L'ho finita e sono andato a farmi una bella doccia ritemprante.
Sono uscito fischiettando, che i due confabulavano fitto-fitto. Poi lui s'è rinchiuso in stanza. Forse parlava col fidanzatino.
“Ma davvero tu hai il condizionatore in camera?”, ha chiesto la bionda.
“Oh si, l'ho preso a rate.”.
“Beato te, stanotte non si respira...”.
E' entrata nella stanza, s'è piazzata sotto il getto d'aria gelida. Pareva godere senza ansimare.
“Oh, anche il letto matrimoniale...” .
“Se vuoi puoi dormire qui, non ho problemi.
“Non so se è il caso...poi io mi sveglio alle 7,30, ti darei fastidio.”. E s'è stesa sul letto, levandosi le scarpe.
“Nessun fastidio, beh, sempre se Andrea è d'accordo...”.
“Che c'entra lui? Pensavi che tra noi ci fosse qualcosa? - s'è fatta una risata scoppiettante - A parte che sono fidanzata, poi con lui dormo sul divano letto.”.
“Non ci sono più i gentiluomini di una volta. Domani gli dico di farsi le valigie.”.
“Si ma è un divano apribile, diventa un letto...con lui sono tranquilla perché siamo amici.”. Ha concluso la frase, indossato una mia t-shirt, tolto i pantaloni e sfilato il reggipetto con movimento fulmineo. Rimasta con le mutande a metà chiappa, si ammirava allo specchio, nella penombra.
Quel “con lui sono tranquilla” unita al “magari” dell'orgia ridotta, mi ha spinto a pensieri filosofici: Non avevo nemmeno un preservativo e un'eccitazione tremenda montava dai calcagni fino alla punta del prepuzio. Lei seguitava a dondeggiare il didietro, strizzandosi i fianchi.
“Uff...mi sono ingrassata, che dici?”.
“Oh no, ti sta benissimo.”.
S'è messa sotto le lenzuola, a distanza di sicurezza. Pareva in vena di una nottalba di confidenze. Amicizia, rispetto, fedeltà, Andrea, il fidanzato militare di carriera, i treni...
“Senti io sono abituata a dormire senza, ti da fastidio se mi tolgo lo slip?”.
“Ma figurati, sono un uomo moderno. Anche io dormo senza, non ce l'ho mica il boxer.”.
S'è girata, sfilandoseli con grazia pudica. Mi ha dato le spalle e ha ripreso a ciarlare di cose che non capivo, le guerre nucleari, la critica della ragion pura, l'ontofenomenologia dello spirito...
Mi sono avvicinato e l'ho cinta di spalle. Aveva un buon odore. E mi lasciava fare. Le ho accarezzato le gambe, le spalle lisce, e infilato lentamente l'asta tra le chiappe. Strusciava pulsante sulle due fessure. E lei continuava a parlare, della cantica virgiliana, dei diritti delle donne, della juventus. Solo con la voce un po' più inquieta, mentre con le dita sondavo le labbra della fica. Era ben curata e già bagnata. S'è girata, m'è parso di intravvedere un sorriso vizioso, di quelli che negano l'invito per accelerarlo.
“Che vuoi fare?”.
“Ma niente...”.
Non avevo ancora terminato la frase, che gliel'ho infilato con premura.
“Ma che fai? Sei pazzo! Uhhhhhh! Ce l'hai il preservativo?”.
“No.”.
Ho cominciato a darmi da fare, assestando dei colpetti fantasiosi, senza foga. Prima di lato, e poi un brioso incastro tipo accoppiamento delle ostriche svedesi. Mi smarrivo mordendo le tettine trepidanti e scivolando tra le natiche burrose. Si dibatteva, gemeva e dopo un po' se n'è venuta contorcendosi tutta.
“Non sono tranquilla, scusa...”.
S'è sottratta in modo malvagio. Ha preso a baciarmi e a menarlo con decisione. S'è girata di lato, indirizzandoselo dietro. Uhuhuh! Che donna decisa! Mi ha smarrito un poco. Voglio dire, inculare eccita proprio perché si immagina il rifiuto, al limite come prova d'amore incondizionato. Quando non chiedi nulla, te lo danno loro, senza tanti preamboli. E' tutta una questione di psicologia, il culo. Ho cominciato a lavoralo con estrema dolcezza, lasciando che la cappella affondasse lentamente.
“Uh, mi fai male!”.
“Lasciami fare piccola, vedrai...”.
“Ma ce l'hai qualcosa, un po' d'olio...non sono mica abituata...”.
“(certo-certo, come no.)ok, adesso vedo.”.
In bagno non avevo nulla. Ho frugato nell'armadietto di Andrea. Una serie di cosmetici da far invidia a Wanda Osiris. Ho avvisto “Baby Johnson's, olio per pelli sensibili.”. E culi riottosi. Non c'era scritto, ma è sottinteso. Già un paio di volte aveva funzionato benone. Mi sono guardato allo specchio. Il cazzo era duro e paonazzo, con leggero scappellamento a sinistra.
“Ho trovato questo, che dici, va bene?”
“Oh è perfetto! Vedo che sei attrezzato! L'avevo capito che sei un maiale! Quante te ne porti a letto, eh? Eh?”.
Non ho risposto. L'ho cosparsa, poi ho affondato senza problemi. Scivolavo, immerso in un gaudente
 mix di freschezza da ghiacciai antartici e calore sconcio, muschio di montagna e sabbia rovente. Una inculata calma e lenta. Poi una scarica densa che e scivolata nel culo, accolta da un suo gridolino di soddisfazione.
Ha iniziato a darmi bacetti e piccoli morsi sul collo. Quindi ha ripreso il monologo. Chakra, fidanzato, matrimonio, convivenza, la stagione dei monsoni...

venerdì 14 agosto 2009

La mia moca per una sveltina









E' arrivata in mattinata che ancora dovevo smaltire i postumi della sbronza del giorno prima e addomesticare l'erezione del risveglio. Ho aperto con gli occhi pesti, a fessura. La luce mi violentava e derideva al tempo stesso. Portava un bel vestitino luccicante celeste tutto a fiori. Dava molto l'idea di un'estate sbarazzina, incurante di un tornado tropicale.
Ho messo il caffè sul fornello, sconfiggendo il tremore alla mano. Aspettando il gorgoglio profumato, ci siamo baciati. Un vorticoso abbraccio di lingue fameliche. Il cazzo palpitava già nelle mutande. La mano s'è insinuata sotto la gonna sgusciante, un accordo di dita ancora tremanti a strimpellare sul tanga, caldo e umido. Un sussulto soffocato, poi l'ha sfilato dai boxer, un pezzo di carne infuocato, serrato tra le sue dita di padrona. Severa, implacabile. Cristo! Ero duro come il marmo, eccitato come non avveniva da tempo. Mi scoppiavano le meningi. La vena delle tempie suonava un cha-cha-cha.
Il caffè è uscito, abbiamo lasciato che si bruciasse. 

Con gli occhi da cagna chiedeva la violentassi lì, senza aspettare oltre, nessun preambolo, pudore e stronzate tattiche. Solo istinto animale. L'ho fatta girare. Chinata sul tavolo, ha inarcato la schiena per mostrarmi ancora meglio la fica, e un buco di culo invitante. Il filo del tanga lasciava intravvedere il bucetto sconcio, stagliandosi dispettoso nella fica rosea e fradicia. Ho sfilato il tanga lentamente. Una gamba, poi l'altra. Vibrava, quasi, di una sadica voglia di cazzo. Quelle gambe dischiuse nascondevano il settimo mistero gaudioso di Fatima. E nessuno lo conosceva. Stava lì in mezzo, tra le sue chiappe discinte.
Ha preso a dimenarsi come una cavalla ingorda, appena assaporata la cappella. Muoveva le chiappe in modo circolare, cingendola con decisione. L'abbracciava con la fica. Poi l'ho infilato dentro di colpo. L'ha accolto con un rantolo d'eccitazione sorpresa, piagandosi ancora più in avanti. Gemeva senza trattenersi, sotto i colpi lenti e brutali. Li assestavo senza badare al resto, alla pioggia improvvisa all'aroma bruciata del caffè. Qualche istante a indugiare col cazzo piantato nella fica, fino alla palle, ascoltando quel mugolio prolungato, travestito da invito ad affondarne un altro, più vigoroso e profondo. E io la assecondavo, come un cavallo pazzo, che schiuma eccitazione dalle palle. 
Che chiavata coi fiocchi, nel tanfo di gomma bruciata, caffè e dello spirito santo coi suoi olezzi afrodisiaci. Leccava e succhiava le dita come fossero un cazzo. Forse lo voleva davvero, un altro cazzo. Tutte lo vogliono un altro cazzo, mentre godono. Anche quando non godono. Se n'è venuta con un urlo strozzato, mordendomi le dita.
L'ho sfilato, non ha fatto in tempo a scendere giù, che due schizzi abbondanti hanno sporcato il tavolo. 

Piegata sulle ginocchia, guardandola lappare gli ultimi fiotti svogliati, mi sentivo come un condottiero a seguito della pugna, un torero dopo aver colpito a morte il toro imbizzarrito. Sentivo il suo respiro ancora affannato sfiorare la pelle bagnata e sottile. Le labbra morbide lambivano la cappella intrisa di sborra quieta e densa, e se lo gustava con una lingua vellutata, avvolgendolo lentamente. Il mio cazzo era suo, appartenevo a lei, in quell'istante di piacere che svanisce lentamente, coi brividi a scuotermi la schiena fino allo sfintere.
Poi s'è asciugata le labbra, incominciando a vagare smarrita, alla ricerca di quel tanga minuscolo.
Ed io devo cambiare la guarnizione della moca.

martedì 16 giugno 2009

L'albero delle fiche (crucchi e bacucchi abbienti)





Che poi Luigi, mosso a compassione per il mio stato di semi-indigenza, mi ha trovato degli acquirenti. Grazie a potentissime e altolocate conoscenze, ha scovato una coppia di attempati tedeschi, assai munifici. E' passato di buon mattino, tutto raggiante e ben pettinato. Io mi ero già fatto tre beck's gelate e fumavo nostalgico alla finestra. In mutande. Il cucciolo di gatto-topo mi guardava con gli occhi compassionevoli, poi ha cominciato a giocare con un tappo di birra. Lo puntava come il torero fa col toro.
In macchina ero silenzioso e meditabondo. Lui mi guardava, silente. Alla fine non s'è tenuto:
“Che c'è, ti stanno venendo dei dubbi?”.
“No, è che non sono più sicuro.”.
“E' una cosa normale, succede. Ma è solo un fondo rustico. E quelli pagano dieci volte più di un italiano. E' un'occasione unica!”.
“Lo so, ma ho tanti ricordi in quel posto.”.
“Mica lo sapevo fossi un romantico del cazzo...”.
Un povero sentimentale smidollato. Mi affeziono alle cose, mi stacco difficilmente dai ricordi. Talmente stupido e alla canna del gas, da essere costretto a vendere. I cinici hanno successo e grana e non sono costretti a vendere, se non il culo. Non hanno il tempo di essere romantici. Il fottuto gatto che si morde la coda.
Luigi smoccolava ad ogni buca delle stradine sterrate e sconnesse. La sua docile fuoriserie annasapava impaurita. E lui trepidava, delicato con le sospensioni, come una con una verginella smarrita che ti spergiura di fare con dolcezza. Ma siamo arrivati. 

Attendevano già con puntualità teutonica. Due tedeschi da cartolina. Più vicini ai novanta che agli ottanta. Pelle bianchiccia e lievamente arrossata. Lui portava dei baffi di un giallo paglierino, zigomi lombrosiani, mascella dura e volitiva, occhi celestini e a fessura. Sul cranio lucido, le macchioline della vecchiaia riflettevano i raggi del sole, appena nascosti da una chiara peluria. Ovviamente indossava calzoni corti da esploratore. Lei, un'adorabile bacucca in sovrappeso con la panza da birra e lo stomaco da consumatrice abituale di wurstel, coperta da una pacchiana vestale a fiorellini minuscoli su sfondo nero. Capelli di un bianco agghiacciante sotto una paglietta di vimini da turista modello. Due ceppi spaventosi. Tremendi! Sembravano usciti da un film in bianco e nero sull'orrore nazista. Degli adorabili vecchietti serial killer. Mi guardavano sorridenti, come a voler risultare simpatici.
Poi hanno cominciato a ciarlare fitto-fitto con Luigi. Io attendevo la traduzione e non dicevo nulla. Ogni tanto li insultavo a mezza voce. “Brutti nazistoni di merda! Non avrete mai il mio casolare!” “A Norimberga vi devono portare, A Norimberga!”. Non capivano, mi guardavano e sorridevano all'unisono. Dicevano che era bello. Alternavano l'espressione placida a stridule esclamazioni incomprensibili e sguardi severi, con un filo di ferocia glaciale nelle pupille. Si sono allontanati ad ammirare l'ambiente campestre. Alberi d'ulivo secolari, mandorli, ciiliegi, fiche, molte fiche. Ho un debole per le fiche. E per gli alberi di fiche, foglie ruvide e tronchi fragili. Ce n'è uno che pende sulle mura laterali della casa, ma le fiche non sono ancora mature. Mi sono avvicinato al turpe affarista, che si aggiustava il ciuffo e controllava il telefono.
“Ma qui non c'è campo, non c'è campo cazzo!”. Si agitava. Attendeva la chiamata di un suo amico. Qualche tizio di dubbio gusto, certamene
.
“Senti io non sono più sicuro, la mia proprietà in mano a due orridi crucchi, con la faccia da crucco, i vestiti da crucco, la voce da crucco. Ti sembro uno che vende la sua proprietà ai nazisti? Eh?”.
“Non mi sembra il caso di scherzare...”.
“E chi scherza? Mai stato più serio. Mi fanno spavento quei due vecchietti. magari lo useranno per seppellire cadaveri.”.
“Fai come vuoi, mi hai rotto le palle per un anno, e ora che ti ho trovato qualcuno che paga, ti tiri indietro? Sei da ricovero...”
“Che fretta c'è? E' solo il primo incontro. Magari sono davvero due ricercati nazisti. Priebke! Ecco! Lui somiglia a Priebke! Il mostro delle Fosse Ardeatine, è suo fratello!”.
“Fai come credi, ma entro fine mese arrivano coi soldi. Ce lo hanno il grano i tedeschi!".
Sono ritornati, mi hanno stretto la mano rugosa e se ne sono andati, con l'increscioso impegno di rivederci prestissimo. Pure Luigi se n'è andato.
“Io rimango qui, faccio due passi a piedi, dopo.”.
“Ma sono 4 kilometri.”.
“Lo so, ci sentiamo.”.
Ho fatto un giro per campi, mangiato due albicocche, visto due vispe lucertole da terra, guizzanti e impaurite. Mi sono steso sull'erba e ho fumato una sigaretta. Gli uccelli cantavano instancabili, mi è venuto di prenderli a schioppettate. Poi mi sono ricordato che ripudio le armi, c'è scritto. Osservavo il cielo. Tra le nuvole discrete, ho scorto due buffi nani con la pipa, e un orso polare che si faceva il bidet.
Sono entrato in casa. C'erano ancora i resti dell'ultima volta. Pane duro circondato da formiche di un marroncino trasparente, sottaceti vari, maionese scaduta, una mela avvizzita, bottiglie vuote. In una c'era ancora del vino. Me lo sono scolato a garganella. Aspro e rivoltante. Ottimo. Mi sono steso sul letto. Ho immaginato che tra un po' vi adageranno le loro chiappe smunte e mollicce i due teutonici da ospizio ariano. Hanno un piede nella fossa, ridono e comprano. Io sono un giovine virgulto e vendo, con la faccia da italiano triste che scala l'Alpe d'Huez. Loro canteranno camuffati inni nazisti, mangeranno crauti. Che scempio! Io che avevo grossi progetti per quel posto. Sposarmi, vivere di rendita dedicandomi alla scrittura creativa e snerchiuta. Assieme alla mia giovane sposa, una donna semi-analfabeta e alcolizzata, ma con l'animo artistico ed un culo sensibile. Avremmo vissuto di pastorizia, frutti della terra e amore disinteressato. “Donna facciamo l'amore, perché tra noi non occorre parlare...di te ora voglio esser degno, sarai regina del mio piccolo regno, che per quanto il mio mondo sia piccolo, c'è una luce che parte dal cuore”. Certo, coglione. Cresci, stronzo! che non hai più sedici anni. E smettila con queste canzonette patetiche! Parlo spesso con me stesso.
Prima di vendere devo assolutamente venire a farmi l'ultima chiavata, il prossimo fine pare propizio. Stavo per addormentarmi, quando ho immaginato una fica che mi sibilava dolcissime parole d'amor peccaminoso. Così ho deciso di masturbarmi. L'ho tirato fuori dai pantaloni, c'aveva un'aria afflitta e accaldata, ma la cappella era già gonfia. Ho preso a menarlo con fermezza calma. E me ne sono venuto. Poi m'è preso un po' di avvilimento e ho dormito.

Se qualche lettrice è interessata ad una chiavata rustica prima che venda ai crucchi, mi mandi una mail con curriculum vitae. E in allegato, tre foto: Chiappe, labbra e schiena. Mi ispira la schiena. Da luglio potrei garantire solo un normale appartamento.

Voster-semper-voster

sabato 23 maggio 2009

Piccoli baci intrisi di piacere schiumoso





Poi il treno arrivò quasi in orario. La stazione brulicava già. Attività frenetica e fremente. Valige e rotelle rumorose. Tutti convinti, impettiti e ben vestiti. Guardai la mia immagine riflessa in una vetrina. Un ciuffo di capelli scendeva imbecille sul viso sconfitto. Lo sistemai, tornò giù. Poi non ci pensai più. Mi avviai senza sentire nemmeno le gambe e la testa. Un caffè amaro, poi gomiti spintoni, chiacchiericcio tremendo. Che ci facevo in mezzo a quel ripugnante sciame cicaleggiante? 
Mi sedetti sui bordi di quella che doveva essere stata una fontana, trasformata in ritrovo dei derelitti. Una comitiva di neri con gli occhi spenti e il vino in cartone veniva tenuta d'occhio da due solerti gendarmi. Sfogliai il giornale. “Le veline del presidente”. Volonterose studentesse della "scuola di politica". Pure io sono stato con una "farfalletta" in erba. Mi praticò un maldestro pompino rigato nel 2001, e poi a casa ne facemmo una all'impiedi, con lei faccia al muro. I giorni seguenti se la fecero anche altri amici. Con gli anni avrà affinato i suoi gusti. Ma non posso dire di più, passerei per un millantatore. Un vile calunnioso.
Gettai via il giornale, guardandomi attorno. Una specie di Gesù pagano deambulava per i lucidi corridoi della stazione come una scimmia in trance. Un altro trascinava un aggeggio arrugginito per trasportare i bagagli. Ci aveva riposto dei sacchi di plastica, e camminava guardandosi attorno, come inseguito da demoni spaventosi. Lo trascinava quasi fosse un delicato passeggino. Vestiva stracci logori e sporchi, delle ciocche unte gli cadevano sulle spalle, mentre gli occhi erano spiritati e sbarrati, poi agitati, di nuovo sbarrati. Chissà cosa riusciva a vedere. Ogni tanto si piegava e raccoglieva cicche. Abbozzava uno strano sorriso, quindi agitava i pugni.
“La maleducazione! Il mondo è diventato maleducato! La gente non conosce l'educazione!”.
Incrociai per una frazione di secondo le sue pupille tormentate, digrignò i denti grigiastri aprendosi a un risolino isterico. Ebbi paura. Poi si chinò di nuovo, raccolse altre cicche e proseguì il suo giro, ridendo.
Lasciai il messia e mi avviai. Il convoglio sotterraneo, poi un altro in superficie. La tipa abitava fuori mano. Una frazione staccata dal grande centro nevralgico e arruffato del nulla. Il cielo appariva più crudele del solito, grigio e pesante come una spessa lastra d'acciaio. Stradine sconnesse, viottoli di fango, poi alberi, fino alla sua graziosa magione, col tetto spiovente e un bel giardino curato all'americana. Un po' mi faceva piacere rivederla, ma avevo un gran sonno e un dolore che partiva dalle gambe, risaliva lungo la schiena e terminava come un chiodo conficcato nelle meningi. 

Il selciato bagnato scricchiolava sotto le mie gambe leggere, mentre pensavo a lei. L'avevo conosciuta per caso. Uno sprovveduto coinquilino me la portò a casa. Una cena discreta. Poi passammo la notte a bere vino siciliano. L'amico andò a sollazzarsi coi suoi amici di msn e noi restammo a trincare vino, fino a dormire sbronzi sul divano. Scopammo dolcemente prima che il cielo si rischiarasse. Continuammo a vederci, quando capitava. Giusto per mitigare le nostre solitudini con piacevoli orgasmi. Scopavamo e lo mettevamo in culo alla noia. Cos'altro è l'amore se non una serie di chiavate pietose? I suoi occhi erano profondi e scuri, sempre cerchiati di un trucco pesante, capelli disordinati color arancio, lunghi sul davanti e sfumati sul collo, gambe snelle, muscolose, chiare e un po' storte, un bel par di tette puntate minacciosamente verso l'esterno, e il didietro proporzionato e tosto. La sua fica era liscia e carnosa. 
Insomma, mi attraeva non poco. Richiamava una scopata furtiva e traditrice. Ma lei un uomo non ce l'aveva. Non gli interessavano granché, fuori da un letto. Non faceva nulla e non ero mai riuscito a spiegarmi come facesse a permettersi quella bella casa. Genitori abbienti o marchette ricercate. In fondo non m'importava.
Non era poi cambiata molto in sei mesi. Indossava una maglia bianca e sformata, ed un paio di boxer a righe bianche e lillà. 
I suoi occhi erano ancora violentati da sonno. Mi accolse con un bel bacio e un abbraccio. Sciatto e morbido. 
Poi in una cucina, qualche frase di circostanza. La osservai stringere la moca con grazie indifferente. Le guardai le gambe e la pelle. La cosa più bella di Daniela è la pelle. Chiara, delicata, quasi indifesa. Bevemmo il caffè, poi si accese una sigaretta. Non aveva l'aria felice, ma le mie parole la divertivano. Il segreto con le donne è avere un bel diametro taurino e farle ridere. Io non lo faccio di proposito. Racconto cose vere e tremende, e loro ridono.
“Così ti hanno fatto compagnia due stanghe bionde stanotte...”.
“Tu scherzi, ma è stato orribile! Sembravano vere, delle vampire...volevano uccidermi. Credi abbia un significato?”.
“Non credo...è un semplice incubo.”.
“Può darsi, ma è da quando sognai Gad Lerner in perizoma che mi ammiccava concupiscente, che non ne avevo uno così spaventoso...”.
Le ho strappato un altro sorriso involontario.
Ho spento la sigaretta e mi sono fatto una bella doccia tiepida.
Quando sono uscito lei era stesa sul letto, con la finestra aperta. Lampada accesa e luce buia del cielo che s'insinuava triste. Fumava meditabonda, interrogando il soffitto. Mi sono asciugato per bene. Poi mi sono steso vicino a lei e ci siamo baciati. Un bacio assai coinvolgente. La sua lingua andava senza spartito, poi mi assecondava, provavo a catturarla e le succhiavo le labbra. Un osceno squillo del telefono.
“Può essere per lavoro...”. Si è giustificata.
(“Ma quale cazzo di lavoro!”). Ho pensato.
Si è alzata, ha ondeggiato le chiappe serrate nei boxer aderenti, ed ha risposto. Gesù che culo lussureggiante! Me ne sono acceso un'altra, per graffiarmi la gola. Ho guardato le pareti color celeste tenue, sormontate da strane intarsiature bianche. Poi la finestra. Gli alberi secolari parevano animali stremati e ricurvi, vecchi e nodosi. E provavano a reggere la cappa grigiastra e minacciosa.
Poi ritorna con dei passi saltellanti. Si accuatta pensosa. Un sussulto improvviso. Stupore e un brivido ad accogliere la sua lingua, calda e lenta. 

Che sensazione meravigliosa quello strisciante calore umido lungo il mio cazzo stanco, dopo una notte terribile. Lo sentivo crescere ed ingrossarsi tra le sue labbra morbide. Con le unghie rosso fuoco prende ad accarezzare la palle gonfie, un graffio impercettibile appena sotto. Sa come giocare, docilmente sadica. Afferra la cappella, l'avviluppa, gioca coi bordi. Divertita nel sentirli così gonfi. E' fissata con i bordi. Dev'essere una questione psicologica. Quasi a volerli disegnare con la lingua appuntita e dura, che poi d'improvviso ritorna leggera come piuma fradicia, avvolgendola famelica. 
Un bacio lento e le labbra che scorrono lungo il cazzo teso, che vuole scoppiare. Glielo sottraggo dalla labbra. Le mie mani ora si agitano, passano dal collo alla schiena. Mi inarco, provo a raggiungerle le chiappe sode, ma lei prova a fare resistenza, nel finto gioco dell'eccitazione. La immobilizzo contro il muro e le dita impazzite nello spacco di culo sfrontato, poi sulla fica aperta da un rossore ingordo. 
Ho solo voglia di schiaffarglielo dentro. La vita è fatta di cose semplici. Ma lei non ci sta, si sottrae ancora, mi fa stendere come prima. Avevo dimenticato, le piace sempre concludere le cose. Una alla volta. Metodica e porca, e padrona delle sue cose, e soprattutto del cazzo. Non vuole scopare. Non subito, almeno. Un mugolio e di nuovo sulla punta rivestita da saliva densa. Se lo affonda in bocca, lo ingoia, mena all'impazzata e succhia come indemoniata. Sento il suo respiro e il montare della sua eccitazione ad accompagnare la mia. 
Sto per esplodere. Lei rallenta, crudele fino alla fine, e ancora le labbra umide che solleticano il filetto e lo seguono giù fino ai coglioni, come pittrice ispirata. Ancora due colpi e un getto violento che le sporca la bocca. Asseconda gli altri zampilli strusciando le labbra, come piccoli baci intrisi di piacere schiumoso. Si rialza, viene sul mio petto, e con la mano continua ad accarezzarlo, materna. Mentre fuori gli alberi vengono scossi da folate di vento spaventoso, lei si siede, aprendosi, sul mio viso.

mercoledì 13 maggio 2009

Due finniche morte e assassine che danzano su musiche gitane


La ragazza, venerdì non è venuta. In tutti i sensi. Il rodaggio del suo pertugio lussurioso è fallito miseramente (o solo rinviato?). Chi lo sa. In definitiva si prendono tutte gioco di me. Non apprezzano la mia sensibilità raffinata e profonda.
E allora vi narro una vicenda di fine aprile. Un'altra forchettata di cazzi miei, insomma.
In trasferta, direzione Roma. Internazionali di tennis e vita mondana, senza una lira in tasca. Viaggio in un affollato notturno per non abbienti, disadattati, cenciosi e stranieri. Scompartimento fortunatamente vuoto, e vociare convulso. Una sigaretta divorata, durante la sosta in una sperduta stazione. Un nero di due metri con enormi sacche azzurro intenso, condotto fuori dalla carrozza. Il solerte bigliettaio, lo spintona energicamente, con l'aria severa. Lui reagisce piccato. Fa lo sguardo truce.
“Fanculo amico, fanculo rasista di merda!”.
Quello reagisce mica bene.
“Ehy tu, che hai detto? Imparate l'educazione, lazzaroni maleducati! Fanculo a te e chi vi fa entrare in Italia.”. Mi guarda, cerca conferme. Annuisco. Lo tengo buono. Magari mi capiterà di fumare in corridoio. La vita è fatta di compromessi.
Il ragazzone si allontana ciondolando e smoccolando qualche insulto. Reo di non avere il biglietto e volerlo fare in treno. In modo imprudente abbozzo, una domanda al bigliettaio:
“Scusi ma, il biglietto non si può fare anche a bordo?”.
Farfuglia, sbiascica qualcosa di imprecisato.
“Si, si può...cioè si poteva...ma questi cialtroni devono imparare l'educazione! Come ci si comporta in Italia! Mi faccia vedere il biglietto lei, piuttosto!”.
Capisco di aver fatto un passo azzardato, con la mia impertinenza. Devo essergli sembrato un debosciato progressista. Glielo mostro, lo buca in modo nervoso e se ne va nella notte, a caccia di altri lazzaroni stranieri.
Poi rientro. Salgono pure due tizi. Si assiepano. Ridono, poi litigano, s'insultano. Alla fine aprono i sedili, levano le scarpe e si stendono. Uno dei due tira fuori una copertina e si accuccia sereno. Devono essere abituati, una cosa normale. Cominciano a russare come cinghiali selvatici, in un concerto quasi blues. Ed emanano anche un odore particolare, insopportabile. Afferro la mia borsa in pelle da professionista mancato, adagiandomi nel corridoio.
”Aranciate, birra fresca, aranciataaaa!”. Un buffo ambulante con l'accento napoletano e panzetta malaticcia. Me n'ero sparati quattro alla stazione, prendo altri tre barattoli di peroni. Otto euro. Sfugge a ogni legge matematica, ma chi se ne fotte.
“Eh, ti ho fatto lo sconto...”. Mi rivela con lo sguardo furbo.
“Ok.”.
Stappo, e sorseggio guardando il paesaggio schizzare via. Ogni tanto qualche casolare isolato, con luci arancioni ancora accese. Che staranno facendo ancora in piedi? Ed io che ci faccio in quel convoglio orrendo? Non dormo da 64 ore all'incirca e me ne sto seduto su uno sgabello pieghevole, nel corridoio di un treno per miserabili, diretto in nessun posto. L'idea di spararmi un colpo in testa dura qualche secondo, il tempo di ricordare che non ho una Lugher in tasca e di essere un obiettore di coscienza, non essere autorizzato all'uso delle armi. Che devo rifiutare la violenza. Anche contro di me. Mi arresterebbero anche da morto. Che assurdo paradosso. Da qualsiasi posto la si guardi, riescono sempre a fotterti. Ne stappo un'altra. E' calda come piscio, ma quella è. Occorre accontentarsi. Mi aspetta una bella fica calda e una due giorni di divago nel villaggio vip del Foro, a discutere del rovescio in back. Meglio che lavorare nei campi.
Sono a pezzi, mi dolgono le reni. Provo a riposare con la testa reclinata in avanti. Come un cavallo. Ma non ci riesco. Non c'è niente di più atroce del volere e non potere. Il segreto è non pensarci. Ne è rimasta un'altra. Levo la linguetta e osservo l'alba che scorre, svelando montagne frastagliate in lontananza. Voglio dire, capita spesso di osservare l'alba. Raramente di vederla spuntare in movimento. Diversa ma sempre uguale. Anche in quel trabiccolo nauseabondo, c'è qualcosa di bello di cui meravigliarsi. Ed i babbei se ne stanno a dormire. Finisco pure la terza e rimango sul sedile.
Comincio un bel sogno. Due stanghe finniche che danzano sorridenti e lascive, attorno al mio letto. Odore d'incenso, erba selvatica e vaniglia. Ancheggiano e ammiccano seminude, con degli strani nastrini dorati attorno a biondi capelli, fluenti come onde rassegnate. Indossano un vestitino azzurro cielo, corto, eccitante, con una cintura, dorata anch'essa, a cingere i fianchi. Quel drappo copre appena cosce chiare e luccicanti. I capezzoli inturgiditi spuntano discreti sotto al vestito leggero e setoso. Sui lati della cintura, scorgo una federa di cuoio e un pugnale. 

Che ci fanno con un pugnale? Mi porgono grappoli d'uva e grossi beveroni di vino, come ancelle devote. Una specie di paradiso. E danzano su musiche gitane. Poi si acquattano frementi, mi abbracciano tutte ansanti, squittiscono, lanciano gridolini strozzati come maialine da latte. Ancheggiano, dimenano le chiappe a pochi centimetri dal mio viso. Non resisto, ne avvicino una a caso. Le alzo il vestito. Non portano slip le satanasse. Una mano s'insinua in quei glutei di marmo. Gesù, una fica gelida. Una specie di brina mattutina solca la fessura dischiusa. Mi smarrisce. Una prende a baciarmi. Labbra glaciali, leggere come piume ghiacciate. Labbra di cadavere. L'altra amazzone comincia a strusciarsi e leccarmi il cazzo lentamente. Un pezzo di ghiaccio che accarezza la palle gonfie, scivola morbida e risale lungo il cazzo imbizzarrito, fino alla cappella. 
La bionda scandinava ci ha denti inquietanti e aguzzi, ma non li sento mica. Solo un gelo orrendo che risale su. L'altra continua a baciarmi e sorride. Una luce assassina e raggelante proiettata dagli occhi chiari, mi paralizza. Gesù, sto scopando due cadaveri che vogliono uccidermi. Sono morto, o solo pazzo. Il trillo del telefono mi salva da una sborrata mortale.
“A che ora arrivi?”.
“Alle 6,30 credo.”.
“Tra mezz'ora vuoi dire.”.
“Si. Ma tu sei già sveglia?”
“Lo sai che sono mattiniera...sei riuscito a riposare?”.
“Mi ero appena addormentato. Stavo facendo un incubo. Due finlandesi morte mi violentavano e volevano divorarmi lentamente. Terribile! Terribile!”.
Qualche secondo di silenzio imbarazzato.
“Ok, poi me lo racconti”.
“Ok, ciao”.
“A dopo.”.
Povera ragazza. C'è da comprenderla. Chi si metterebbe per due giorni in casa uno che sogna due finniche morte e assassine, che danzano su musiche gitane? Forse mi ama davvero.
(Quel che è successo la mattina seguente, lo scrivo la prossima volta. Che adesso mi sono rotto il cazzo. E le sigarette sono finite.).

martedì 5 maggio 2009

Deliri notturni





E' tutta una questione di ambizione e buchi di culo. E di chi ha inventato i messaggi. Una catena orrenda.
- Che fai? l'ho saputo ieri, ma ora stai meglio?
- Uhuh...le voci corrono in fretta. Pensavo di crepare silenziosamente. Ho sempre immaginato un funerale senza nessuno. E un interramento spartano, nelle fosse per non abbienti.
- Ok. Ho capito...come non detto, sei nella fase compulsivo funerea...
- Ho solo bevicchiato un po'. E tu che fai?
- Mi sono fatta un joint. Ho mangiato un panino e leggevo sul divano. Ora sono nel letto.
- Lo sai quello che penso della scrittura. Tranne due o tre, il resto mi provoca orchite alla punta del cazzo.
- Va beh, il solito...tu invece, oltre a bere?
- Ho scritto, mi sono cavato qualche pulce. Si sono indolenziti i polpastrelli (li devo assicurare un giorno o l'altro) e atrofizzato il pene. Un muscolo morto. Dovresti vederlo, ti mando una foto? Potrebbe essere la copertina di un romanzo neorealista. Ora accendo la tivù, magari danno qualche replica notturna di amicidimariadefilippi.
- Scherzi, vero?
- Per niente. Ogni tanto lo guardo, senza volume. Mi piace il culo di una ballerina bionda svolazzante. Lussurioso! E' una mia debolezza. Come l'alcool. Tu invece non hai debolezze, per questo noi due non scoperemo mai.
- La mia debolezza penso risieda nella frutta. Darei qualsiasi cosa per una vita fatta di frutta... mare... qualche vecchio film prima di addormentarsi... e un uomo che mi soddisfi. Il mio ideale di vita. L'alcol mi attira ben poco, lo sai.
- Sei romanticissima. Peccato per l'alcool. Non hanno ancora inventato un palliativo credibile. Quando parti per Santo Domingo con un videoregistratore e lo spazzolino, avvertimi. Mi aggrego volentieri.
- Ok, ti faccio sapere.
- Io e te saremmo una bella comitiva. Quanto al soddisfare, non garantisco nulla. Al limite mi rifugio in corner col cunnilingus (sono un dritto, io).
- Beh, e chi lo rifiuta! basta che non si esageri, perché portato per le lunghe mi sembra di avere un rapporto con il mio cane.
- Ma no. Il tempo necessario. Approfondito, ma non tedioso. Lingua guizzante ed operosa. Qualche mese fa misi anche un annuncio:"Abile e discreto linguista offresi per fiche lisce. Prezzi modici. Quindici euro per mezz'ora.”.
- Un puttano! Mica lo sapevo! Però non somigli per niente a Richard Gere.
- No infatti...ci ho i tratti più raffinati, è una bellezza decrepita la mia. E sono parecchio più alto. Comunque è stato un aborto di tentativo. Mi hanno risposto in tre in due settimane. E una aveva 57anni. Tutte timide. Poi non l'ho più messo (l'annuncio). Eppure come prezzo mi sembrava allettante.
- Forse si. Ma noi donne non abbiamo bisogno di pagare, e alcune non sono ancora preparate.
- Eppure, l'utero non è vostro?
- Anche il culo se è per quello.
- Quello fa parte a se. A volte lo si concede per noia. Altre volte per troppo amore.
- Ma dove le trovi queste massime?
- Mi vengono così. Sono una fucina inesauribile.
- Nei tuoi servizi a pagamento era previsto, anche quello?
- Che intendi con “quello”? Slinguare il bucetto? Certo che si, con tariffa raddoppiata. A meno che il culo non fosse stato meritevole. Ho un debole per i culi impertinenti.
- A me piace.
- Bene. Anche a me. Lo vedi che siamo simili? Dovremmo sposarci un giorno o l'altro. Al limite baciarci.
- Non scherzo, il mio uomo poi...è specializzato nella pratica. Mi piace più del cunnilingus, mi da quel brivido...mica lo so spiegare!
- Certo, non devi mica spiegarlo dolcezza. L'avevo intuito che sei una ragazza decisa. Il tuo uomo però è un competente in materia. Tocca ammetterlo, conosce i suoi cazzi.
- Ma dico sul serio, lui affonda anche a lingua e...(censura, v.m 36anni).
- Ok-ok-ok. Alt. Stop. Vuoi farmi capire che hai letto tutte le avventure del Marchese de Sade? L'ho sempre detto che i libri sono la rovina delle persone.
- Guarda che dico sul serio. Sei geloso, forse? Lui è bravissimo!
- Ma bene, un talento cristallino che sfida le leggi della fisica. Avrebbe un futuro nella cinematografia. Una specie di John Holmes della lingua. Già vedo il titolo: “lingua taurina per fessure infigarde”.
- No, sono possessiva...lo fa solo con me.
- Ecco. L'egoismo. La dimostrazione evidente che l'amore è la tomba delle ambizioni e la castrazione di talenti.
- E tu? La infili dentro?
- Ma certo, che domande. Te l'ho scritto prima. Anche se ho una lingua normodotata, mi applico. Poi deve ispirarmi il soggetto. Mi stimolano i buchi di culo viziosi. Il tuo mi piace un bel po'.
- Mica l'hai visto.
- Ho una fervida immaginazione. Si nota dal tuo sguardo.
- Mi stuzzichi? Chissà un giorno...
- Già, io stuzzico. Domani sera sono a casa, comunque. Così per dire.
- No domani, non potrei. Al limite venerdì. Esco da lavoro alle sei, poi vado in palestra e se faccio in tempo, passo volentieri.
- Va bene. Oh, non vorrei fraintendessi...non dobbiamo fare del sesso spiccio per forza. Il sesso non mi attira nemmeno così tanto. Al limite beviamo una birra, parliamo di politica, tennis, crisi in medioriente, ti faccio un dipinto...Sono un tipo brioso da ubriaco, lo sai.
- Ok. Adesso ti saluto che il credito è quasi finito. Mi devo ancora lavare i capelli.
- I capelli? Sono le 3,47. Tra un po' albeggerà. Sei una ragazza strana. Te ne rendi conto? Ti lavi anche la fica?
- No quella l'ho già lavata.
- Bene così, ma non esagerare. Perderebbe tutta la poesia.
- Certo! Ciao, buonanotte. A presto allora...
- A venerdì, vuoi dire. Sei volgare quanto un uomo sincero. E sei ironica. A me piace l'ironia. Oltre alla fica. Dolce notte.
Morale. Ho speso sei euro e zero-otto in messaggi. Che grazie ad una furbesca tariffa con autoricarica, diminuirà di circa un quarto. Arriverò a due euro e ventisei all'incirca. Scriverò il seguito dopo venerdì. Se verrà. E se non muoio prima.

venerdì 17 aprile 2009

Barattoli vuoti, e leccate di fiche mielose


Fuori dal locale sono inciampato su un marciapiede insidioso. Li costruiscono a casaccio per rompere il cazzo alla gente pacifica. E fanno pure piovere. Chi? quelli lì, chi altri. Mi sono ricomposto, con grande dignità. Ho acceso una sigaretta dalla parte del filtro. E l'ho buttata via con classe.
“Ti accompagno io, non è un problema.”.
“Guido io però...”.
“Vuoi scherzare? Sono padrone di me stesso.”.
Lei ha 27anni. Bella, fascino misterioso, capelli biondi ed ondulati che le cadono sulla schiena. Con gli occhi verdi da tigre capaci di tagliarti. Ma non un semplice taglio, infierisce graffiandoti sadicamente. Ti scopano quegli occhi, se solo ne hanno voglia. Ha studiato ed è molto attraente. E mi serve drink in un pub. I beoni abituali le fanno proposte, lasciano bigliettini, s'umiliano di fronte alla sua bellezza superba con svenevoli sguainate di cazzo platoniche e rivoltanti paroloni di miele scaduto. Cristo. 

Lei invece è fidanzata con un figuro orrendo. Un quarantenne coi capelli radi, il passo scoordinato, occhi piccoli e nello sguardo la stessa espressione arguta e fascinosa dell' On. Gasparri. Agente assicurativo, neanche uno col grano. Ed è salita sulla mia macchina.
Ho avviato il motore e mi sono chiesto perché. Poi ho infilato un bel cd d'atmosfera. Risuonava “Confortably numb” dei Pink Floyd, con bottiglie e barattoli vuoti che si urtavano ad ogni curva, tintinnando in un concerto surreale nel silenzio bruno della notte.

Note, vetro e latta. Ed una gran fica sul sedile al mio fianco. Una bella premessa per una scopata infame alla fioca luce dei lampioni. Ma anche leccargliela una mezz'oretta, sarebbe stato un buon affare.
Discutevamo amabilmente e continuavo a chiedermi come avrebbe fatto di li a poco ad infilarsi nello stesso letto con quel cencio d'uomo. Quell'immagine mortale mi perseguitava. Una cosa contraria a tutto. Interesse, gusto estetico, religione. Forse il gaggio nasconde nei pantaloni un'arma da 26 centimetri. Mi è sembrata l'unica possibilità sensata. Lei mi parlava di un concorso, ed io ho elaborato una interessante teoria: Le donne belle che non fanno parte del jet-set, finiscono con uomini tragicamente brutti. Sembrano talmente inarrivabili che nessuno si fa avanti. Inibiscono le menti. E si accontentano del primo relitto che le manda delle rose e le apre la portiera con l'espressione demente.
Parlava guardando avanti, con un po' di imbarazzo. Poi ci siamo fermati davanti ad un palazzo d'epoca e un bidone della monnezza stracolmo. Ha preso una cartina e si è messa a rullare uno spinello.
Poi il discorso è passato al suo amore dolcissimo e osceno.
“E' gentile. Poi sa come trattare le donne.”.
“Con tutta la gente che ti strisciava dietro, alla fine hai ceduto...”.
“Sembra così, ma molti non si avvicinano nemmeno. Altri scappano...”.
Ecco che la mia illuminata teoria trova giustificazione. Sono un dritto mica da ridere. Ho il sapere assoluto racchiuso nelle mie palle gonfie.
“Io non scapperei di sicuro...”.
“E che c'entri tu? Tra l'altro non ci hai mai provato, non sembro il tuo tipo...”.
“Cristo è vero. Non è mai capitata l'occasione. Sono un timido, forse. O quel fiume si stronzi ai tuoi piedi mi disgusta”.
“E quella sera a casa di xxxx?”.
“Le stelle non erano propizie, forse.”. Ero talmente sbronzo che vomitai l'anima e poi me ne andai a casa, facendo un saluto collettivo con la mano. Senza parlare.
“Vuoi dire che ci saresti stata?”.
“Forse, non lo so, chi può dirlo...”.
E ha sorriso. Un sorriso leggero, impercettibilmente malizioso e paralizzante diceva tutto, quella bionda strega, tutto usciva dalle sue labbra rosse e sottili. La non-negazione-netta equivale ad una affermazione. Una possibilità del consenso. A noi uomini basta quello. Un po' l'ho capita la psicologia delle donne. Le ho posato la mano sulla gamba. Ho avvicinato le mie labbra alle sue. Dio, aveva un buon profumo. Fiori selvatici in un meriggio assolato di primavera tra papaveri e amoreggianti vespe. Poi ci siamo baciati. Sette secondi in tutto. Il tempo che la mia mano percorresse le sue cosce schiude, ed il cazzo s'armasse nelle mutande. Poi s'è sottratta, mi ha scansato amabilmente.
”Dai, non è il caso...”
“E che c'è che non va?”. Mi sono avvilito un po'.
(“Io credo negli astri. Stasera la luna pare lacrimare passione depravata, miele selvaggio e sconcio rossore di sangue e passione. Non te ne accorgi? Scopiamo.”). Così avrei dovuto dirle, ma non m'è venuto, e ho ritirato il cazzo.
Mi sono acceso una sigaretta, ho dato qualche boccata nervosa. L'ho ascoltata argomentare.
“Non mi sembra giusto nei suoi confronti. Poi noi siamo amici da tanto...”.
Le ho aperto il portello. L'ho fatta scendere. In aperta campagna. Con le luci della città che si accendevano in lontananza. Ho riavviato il motore e l'ho lasciata lì. E pensavo. Chi le capirà mai, queste creature deliziosamente diaboliche. E stronze. Le chiedevo solo di concedermi una scopata di commiserazione. Null'altro. Mica una amore pietoso, quello ce lo ha già. Poi ho fatto l'inversione. Camminava abbracciandosi il busto, per combattere il freddo che non c'era. Mi sono avvicinato. Sembrava piangere. La macchina la seguiva a passo d'uomo, e io le parlavo col finestrino abbassato.
“Dai sali!”.
“Vattene!”
“Guarda che se passano gli sbirri, penseranno che ti sto caricando. Passeremo la notte in questura!”.
“Sarei anche una puttana, adesso? Sparisci!”
Peggioravo la situazione. Non sono bravo con le parole.
“Va bene, scusami, è stato un attimo di nervosismo, ma ora sali! Mi inginocchio più tardi.”.
E' salita. Ci siamo baciati nuovamente, senza un perché e altre inutili ciance. Un bacio lento e senza pretese. Morbido e finale. Tremava, e sentivo il sapore delle lacrime mescolarsi al buon odore della pelle ancor più bianca sotto il cielo che andava rischiarandosi. Le nostre lingue morbide, danzavano un jazz di dolcezza struggente. Le ho passato la mano sotto la gonna, tra le cosce schiuse, sotto gli slip, era già bagnata, coi riccioli della fica intrisi di piacere bagnato. Le dita si muovevano e lei dimenava discreta il culo, leccando e mordicchiandomi la barba. Inquieta, senza ormai nulla da chiedere che non fosse un orgasmo alle stelle invisibili. Mi sono piegato, sfilato gli slip e iniziato a leccarla. Una leccata avida e lenta, piena di stupefacente poesia. E' proprio vero che la stronza dolcezza nasce dalle cose inattese. Era bagnata, e la lingua scivolava sulle labbra ormai aperte, senza difesa. La divoravo con lentezza, mangiando anche i suoi peli biondi, fradici di desiderio e muovendo all'impazzata la lingua dentro di lei. Morsi e leccate voraci, tra gemiti soffusi e ancheggi che parevano una danza di coordinazione naturale. Poi ha serrato le cosce al mio viso, l'ho sentita vibrare sotto le mie labbra e liberarsi in un gemito più profondo.
Ci siamo abbracciati e abbiamo fatto l'amore come non mi capitava da tempo, mentre in lontananza un cane bastardo si grattava le pulci.

Stamattina mi sono svegliato con una splendida e impudica erezione, ancora pensando a quella scopata lenta e ingorda, con ancora l'odore della sua fica mescolato a quello delle sigarette.

Dedicato a chi non lo leggerà mai.