lunedì 12 ottobre 2009

La volta che baciai dolcemente le labbra alla morte







La osservai allontanarsi. Un vecchio bisonte l'avrebbe portata via dal gran polmone cicaleggiante della città. Ero arrivato in treno due giorni prima, ora lei se ne andava in un lercio treno metropolitano. Un buffo paradosso. Uno come tanti. Si voltò un attimo, liberandosi in un sorriso timido, appena accennato. Continuai a guardare quelle gambe lisce e muscolose e le natiche alte e spavalde, sempre più lontane. E una chioma bionda e mossa che sbatteva leggiadra, seguendo passi sicuri.
M'avviai soddisfatto. M'ero fatto valere, annaspando su quel biondo serpe vizioso. Forse l'avrei sposata. Era meno sensibile ma più depravata di Claudia, più sicura di Michela, Gabriella e Daniela messe assieme. Il suo corpo, persino più attraente di quello di Carmen cavatappi e Valentina. Uh Valentina! Una frenetica bomba ad orologeria. Durò solo due mesi. Il tempo è una grassa frescaccia. Quei due mesi valgono dodici anni. La mia odorosa musa ispiratrice. Fosse durata almeno tre mesi avrei scritto la divina commedia in salsa erotica nel giro di una notte e mezza. Invece se ne andò una sera di aprile e adesso scrivo in un blog che non legge nemmeno un cane con le emorroidi. 
Fanculo le muse di uno scrittore abortito.
Una frenesia calma rivestiva strade brulicanti. Uomini bardati d'azzurro, tricolori fiammanti, grotteschi cappellini da giullare. Asiatici, neri e zingarelli con la mani sudice, tutti uniti dall'azzurro. Ero l'unico diverso che camminava nel mare d'amor patrio. L'Italia si giocava il mondiale, avrei visto la partita da solo. Oppure in uno dei maxi schermi che disseminavano la città, attorniato da gente rumorosa, da solo. Come un cazzo duro, inutilmente fiero davanti a uno specchio. 
Camminai. Un subdolo dolorino partiva dalla pianta dei piedi, fino a conficcarsi come uno spillo sottile nelle meningi. M'aveva succhiato tutto, sangue, sperma e midollo, quella diavolessa bionda con le labbra di ciliegio.
Entrai in un negozio di bengalesi. Pure il commesso indossava una maglietta dell'italia, probabilmente quella di Paolo Rossi nell'82. Soffocava nella lana accollata, ma resisteva stoicamente con la pelata lucida di sugna. Comprai due confezioni di birra, vodka russa a buon mercato e una bottiglia dell'adorato JD. Poteva bastare, lasciai giusto i soldi per il biglietto di ritorno, accartocciati in tasca. Fuori c'erano 40 gradi e avvertivo i brividi di freddo, stretto nella mia giacca di pelle nera. L'indifferenza della metropoli m'aiutava. Nessuno trovava il tempo di additarmi come matto. Mi mescolavo abilmente agli altri.
Entrai nella pensione a prezzi modici, il portiere mi sorrise affabilmente untuoso e pettegolo. Probabilmente s'imbottiva di viagra per poi masturbarsi immaginando di scopare una capra belante. Mi diede la chiave, le bottiglie tintinnavano gioiose nella busta. Avevo sete, una gran voglia di bere.
Mi spogliai e rimasi in mutande sul letto matrimoniale, a rimirare ombre immaginarie. Quasi sentivo l'odore dell'avida sorca di Federica sulle lenzuola, mescolarsi alla nicotina rarefatta dal condizionatore. Forse l'amavo, sicuramente l'avevo amata moltissimo in quei due giorni. Il futuro non m'interessava poi così tanto. Rimasi a bere per per ore. In tv gli azzurri già si davano da fare con animo ardimentoso, ed io buttavo giù birra calda come antidoto a tutto. Quasi un sortilegio magico mi rendesse vulnerabile, senza fica. 

L'amante fantasioso e stupido di qualche ora prima, lasciava il campo a un cencio svuotato. Cominciai a darmi da fare con la vodka gelata, scendeva nelle viscere come ghiaccio scottante. E nello schermo non distinguevo più le sagome in mutande. Solo la voce eccitata del telecronista. Fastidiosa, squillante, insopportabile. Avessi avuto una lugher gli avrei sparato. Scagliai la bottiglia contro lo schermo. Uno scoppio, il fragore avvertito quasi in lontananza.
Accesi una sigaretta, e m'affacciai alla finestra. Mura antiche e cadenti, e nessuno per le strade. Stappai un'altra birra, poi whiskey, e ancora birra. Vomitai aspri brandelli d'anima liquida. Tremavo come una foglia, budella attorcigliate, col cuore che pompava impazzito, manco fosse un temporale schizoide di luglio. Lo intuivo nel petto, poi nello stomaco vuoto, per poi scoppiare feroce nella gola. Pensai di morire sul serio. Trincai alla bottiglia, per scacciare via quella paura. Mi apparvero due angioletti calvi e gnomi. Tutti bardati in una tunica turchese e dorata. Sorridevano accomodanti, mostrando l'unico dente centrale. Poi scorreggiarono all'unisono. E sorrisero ancora. Orribile.
Pensai di chiamare qualcuno. Chi avrebbe capito? Mi avrebbero condotto in grigie stanze di manicomi, o all'obitorio. Ci vanno a nozze con queste cose, quelli lì. Forse ero già morto. Provai a masturbarmi, sarei morto venendo. Il cazzo rimase paonazzo, venoso, inesorabilmente barzotto, di una mollezza vinta. E l'atroce visione mi strozzava. L'impotente sensazione di soffocare senza poter nulla, completamente annegato, senza acqua e senza un perché. I due nani alati ora avevano un ciuffetto biondo e sbarazzino, come Tintin. Alle loro spalle, algida e imponente, una sagoma di donna cadente coi capelli bianchi e stepposi. Portava uno spaventoso mantello lucido color porpora. I suoi denti aguzzi e luccicanti mi ammonivano, riempiendosi di parole metalliche incomprensibili. E m'invitava ad avanzare, subdola e strisciante. Le sue labbra lambirono oscene, le mie. 

Dovevo agire, scappare in fretta, prima che mi strangolassero per sempre. Infilai velocemente il pantalone e una camicia. Pestai i vetri taglienti senza avvertire nulla, vomitai qualche residuo, sciacquai il viso. Scivolai su un gradino immaginario, un appoggio ingannevole. Poi un urto sordo e violento contro la tazza del cesso. Solo il tempo di avvertire un rivolo caldo che dalla tempia colava lungo il viso. E fu buio accecante.
Mi svegliai con una bella erezione che pulsava allo stesso ritmo della testa, sul punto di scoppiare. Tra odori di vomito e sapone al muschio selvatico. E capii che ero ancora vivo. E col ricordo dei danni da pagare alla vecchia zimarra.

8 commenti:

  1. il sesso.
    il modo per sentirci vivi, senza siamo smarriti.
    e che se ne dica, ma è così.
    qualche anno addietro non capivo i "grandi". li guardavo stranita e mi chiedevo: "e che se na fanno di tutta sta voglia?"
    per capire che siamo ancora vivi.

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  2. Ma, non lo so. Forse è il più naturale. Ci sono anche altri rimedi per sentirsi vivi. Pure illudersi dell'amore, può essere un buon palliativo. Ciao.

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  3. Mi rendo conto di aver scritto una roba da cioccolatini perugina allucinati.
    proprio stasera che sono andato ad aspirina e acqua liscia.
    Ciao.

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  4. ho sempre sentito dire che l'aspirina tanto bene non fa..
    il sesso è un'esigenza primordiale, è un ritorno alle basi dell'origine. nasco, mi nutro, mi riproduco e muoio. poi un dì non ben preciso sono nate le farfalle che vanno finire nello stomaco e tutto si fece un po' più complicato.
    comunque. evviva l'amore. siempre.
    ciao :)

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  5. Mica la pippo l'aspirina. Oddio, a 19anni volevo tirare delle formiche (quelle arancioni e piccine-piccine) ascoltando "black dog", ma questa è un'altra storia.
    Farfalle nello stomaco? Io ogni tanto avverto dei crotali morenti. Ma non credo sia amore. Ciao.

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  6. mi piace ciò che scrivi tovo una certa somiglianza con il linguaggio crudo e sensuale di NICK KELMAN.

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  7. che cosa inutile il sesso.
    uno spreco di liquidi e desiderio.
    sono sempre le cose inutili che garantiscono la sopravivenza. che vita di merda!

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  8. @Tatyo,
    Ciao. Non conosco Nick Kelman. Sono ignorante come una bestia. Ma se gli somiglio, immagino sia un venditore di cioccolatini scaduti.

    @Modesty,
    Ciao, eh si. Ho sbirciato il tuo blog. Anche tu la consideri una cosa sciocca. Perme è un antidepressivo, il migliore dei quattro che utilizzo abitualmente

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Dedicato a chi non lo leggerà mai.