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lunedì 8 febbraio 2010

Ritorni di fiamma spenti






Le luci dei lampioni rilucevano osceni, smascherando una pioggerellina invisibile. Ho intravisto una sagoma conosciuta. Dava ampie boccate alla sigaretta, all'entrata del locale. Portava una gonna corta e stivali da cow girl storpia. Gli occhi neri, come se l'avessero pestata di fresco. Era stata la mia donna, per qualche mese. E continuava a fumare algida con aria scocciata e il viso da tossica inquieta. Mi sono avvicinato, per nulla imbarazzato dal mio abbigliamento: Una lunga palandrana, con pellicciotto da pappone americano. In quel posto mi avrebbero scambiato per uno alla moda. Uno eccentrico milionario col cervello in pappa. Ci siamo salutati, lei m'ha donato uno sguardo pieno d'odio sprezzante e genuino.
"Chi si rivede...", ha sibilato con un sorrisino malvagio.
Poi dentro, seduti al bancone, ci siamo parlati senza sentirci. E no, non è una metafora da poeti subumani. Capivo solo una parola su cinque. E non era una sensazione spiacevole. Si può immaginare tutto. Intuire. Evitare di sentire troppo la realtà. Avessimo frequentato simili locali, forse sarebbe durata di più con Vicky. La chiamerò Vicky, ma non si chiama così. Però fa tanto film americano.
C'era in ballo una serata afro. O forse era un locale afro. In sostanza suonavano melodie tribali, e quel posto pullulava di neri. Soprattutto uomini. E parecchie bianche native, che si guardavano attorno con aria virginale ed adorante. Pareva una primordiale danza d'accoppiamento, di quelle che si vedono nel mondo di quark. Ma tutto andava all'incontrario. Goffi rituali d'accoppiamento del maschio in amore, e predatrici fintamente restie e sognanti. Poi qualcuna se ne andava raggiante, accoppiata ad un paio di ragazzi. Anche a Vicky piacciono parecchio ragazzi neri. "Sono così dolci e passionali!", ripeteva sempre, senza preoccuparsi di ostentare una punta di razzismo inconscio, da devota del fallo d'ebano. E a me in fondo non fregava un cazzo. In un certo senso, ammiravo la sua sincerità. Denotava un carattere forte e deciso.
Ho ordinato la seconda vodka. Ed il suo sguardo m'è sembrato meno crudele. Alla terza ci saremmo baciati in modo involontario.
"Dove l'hai trovato questo affare? Non me lo ricordo.". Toccando incuriosita i bottoni della palandrana.
"Lo mettevo nel 1998. Coi capelli lunghi ci stava bene.".
"Perché non li ricresci? Uau, come il selvaggio graffiato dall'orso in 'Vento di passioni'!".
"O morsicato da un crotalo svitato.".
Ha riso. Pure io ho riso. Abbiamo riso. Risate afone, vuote. Piene di un rancore sopito che non aveva senso.
"Ma mi spieghi che fine hai fatto? Al telefono figurati, non rispondi mai. Mi spieghi perché ce l'hai, quel telefono?".
"Vedo le chiamate. Adesso infatti è a casa.".
"E se poi non richiami, che senso ha?".
"Nessuno. Te l'ho detto...vedo chi mi chiama. Chi mi voleva parlare. Mi basta. Capisci? Come va alla palestra?". Ha voltato gli occhi cerchiati al cielo. Mica tutti riescono a comprendere il mio intimismo spirituale.
Un marcantonio nero di due metri, rasato e con al lobo un lampadario di sei chili, se la guardava tutta. Ammiccava. La scopava con gli occhi bruni e lucenti alla luce rossastra. Pareva il magnaccia di ufficiale e gentiluomo. Quello che cade dal settimo piano.
"E chi è quello, lo conosci?"
"Si. Non lo vedi che sta al tavolo coi miei amici?".
"E' il tuo ragazzo?".
"No.".
"Te lo scopi allora...".
"No, ma che ti frega di chi scopo?".
"Era per sapere."
Una sinistra forma di perversione mi porta ad immaginare le donne che sono state con me, mentre scopano un altro. Mi piace sapere chi c'è dopo di me. Ho ordinato un torcibudella messicano a 70%, per chiudere in gloria o all'obitorio. Una tizia sudata e col pantalone maculato mi si strusciava incurante. Due chiappe che parevano dover scoppiare di lussuria. Poi s'è accorta che non ero un nero, e nemmeno un mulatto mascherato dalla barba e se n'è andata via, agitando quel culo enorme. Su e giù. Sinist-dest.
"Finisco questo e vado. Ero solo sceso a comprare le sigarette. Vado a godermi la prima di Stakhovsky.".
"Oh che bello, ti sei dato alla musica classica adesso? Io pensavo ti aspettasse una donna.".
"Non è uno svitato musicista morto, è un tennista. Gioca a tennis.".
"oh cazzo! Ancora...mi sembri uno di quei falliti che non sono riusciti a diventare qualcosa, e continuano...".
"Ma io non volevo diventare tennista. Cioè, non meno che fare il pompiere o l'aviatore.".
"Volevi diventare pompiere?".
"No. Comunque, non riesco a spiegarmi come uno col rovescio melodioso ancora non abbia sfondato. Un affare incomprensibile. Te lo spiego io, è un codardo come me.".
"Adesso ti fai le domande e ti rispondi da solo? Sei da analisi!.", ha squillato per superare la musica, con gli occhi da pazza impasticcata che sta entrando nella fase del down apatico.
"Non puoi capire, sono troppo avanti per tutto.".
L'ho vista un po' a disagio. Insofferente. Si morsicava il labbro. Forse voleva dire qualcosa.
"Va beh, e per il resto?", ha provato a cambiare campo passandosi la mano nei boccoli.
"Il resto rispetto a cosa?".
"Oh merda, ti detesto quando fai così! Come cazzo ti va la vita?".
Diventa assai sexy, quando perde la pazienza. E a me piace farle perdere la pazienza. Spesso è una cosa involontaria.
"Va bene. Tutto evolve per il meglio. Le cose stanno girando nel verso giusto. Così sembra.".
"In che senso?".
"Un giorno potrai dire di aver fatto l'amore col più grande genio degli ultimi tremila anni.".
"Oh mio Dio! Siamo al delirio...dovresti smetterla per stasera con quei drink.".
L'ho salutata, osservandola dirigersi al suo tavolo. Ho riconosciuto quelle natiche ondeggianti, intrappolate nella gonna. Mi sono avviato, e tutto girava tutto in modo soffice e vorticoso. Ho rischiato d'inciampare. Evitato il ruzzolone a pelle di leone di fronte a tutti, con un disinvolto balzello. Il freddo, orrendo, penetrava le ossa e tagliava la pelle. Non era più pioggia, ma nevischio. Una specie di brina bastarda, che s'incagliava nella barba. Appena voltato l'angolo, ho avvertito le gambe crollare. L'orgoglio che mi teneva in piedi, afflosciarsi miseramente sconfitto. Steso nel buio, ed appoggiato al muro. Avrei potuto passare lì la notte. Il cielo pareva un prato confuso di orchidee deformi. Mi cullava, assecondando pensieri indecenti e una risata isterica.
Mi sono rialzato. Due isolati gelidi e deserti. Poi il letto. E nemmeno l'istinto di masturbarmi. E intanto, Stakhovsky ha perso. Spazzato via dall'orrore brutale.



Dedicato a chi non lo leggerà mai.